Truman Capote il cantiere del camaleonte
Prima di diventare, come spesso sono oggi, impiegatizi e un po’ aridi, gli scrittori erano maghi. Indecisi se disegnare, raccontare storie o diventare ballerini di tip tap, capivano a naso che «la differenza tra un ottimo stile e la vera arte è sottile ma feroce»; sapevano che il talento è anche una frusta «predisposta unicamente per l’autoflagellazione», e che la vera letteratura nasce dall’oscurità, dalla parte «più folle della follia».
Dall’azzardo, anche: «Gli scrittori, almeno quelli che si buttano allo sbaraglio, disposti a giocare il tutto per tutto, fino in fondo, hanno molte cose in comune con un’altra razza di uomini solitari: quelli che si guadagnano da vivere giocando a biliardo o al tavolo verde». Così Truman Capote spiegava ai lettori e a sé stesso, nella memorabile prefazione a Musica per camaleonti, che cosa significa – sul serio – scrivere. Sprecare tempo, prima di tutto; provare instancabilmente, sacrificarsi all’altare della tecnica e non a quello, oggi molto più frequentato, dell’improvvisazione. Sondare le «diaboliche complessità» di paragrafi, punteggiatura, dialoghi – e imparare da tutto, non solo dai libri, «ma dalla musica, dalla pittura, e dalla semplice osservazione della realtà»; e poi limare, e provare ancora, e farsi le domande giuste: «Come può uno scrittore riunire felicemente in una sola forma – diciamo il racconto – tutto ciò che sa intorno a ogni altra forma di scrittura?». Per uno come Capote, lo scrittore vero dovrebbe disporre di tutti i colori della tavolozza, di tutte le note del pentagramma, saper mescolare gli ingredienti conoscendoli uno a uno, raggiungere un virtuosismo tecnico «resistente e flessibile come la rete di un pescatore». Se avesse potuto aggiungere la propria alle Lezioni americane che Calvino stava scrivendo, Capote ne avrebbe forse aggiunta una sulla «duttilità». Pochi scrittori come lui, nell’altro secolo, hanno attraversato i generi e le forme dello scrivere con tanta disinvoltura: a trent’anni dalla morte – fu trovato senza vita in casa di un’amica, a Los Angeles, il 25 agosto del 1984, distrutto dall’alcol e dalle droghe – si leggono e rileggono le sue pagine come un’eterna novità. Dirò di più: nel cantiere di Capote, più che altrove, gli scrittori del futuro dovranno andare a scuola. Il nuovo secolo chiede a chi scrive velocità, elasticità, capacità di adattamento, «camaleontismo». Capote è il maestro giusto: autobiografia creativa, giornalismo narrativo, ritratto dialogato, scrittura di viaggio, cronaca mondana, acida e pettegola quanto basta. Non manca niente. Basterà sedersi in un angolo, e guardare: come un ragazzino di New Orleans, all’anagrafe Truman Streckfus Persons, nato il 30 settembre di novant’anni fa, diventa Capote. Il 18 settembre Garzanti manda in libreria un’ampia biografia – George Plimpton, Truman Capote (pp. 500, euro 29) – con testimonianze di prima mano, da Gore Vidal a Marella Agnelli.
Vita familiare pasticciata, viene affidato agli zii: il primo padre appare e scompare, mette in piedi spettacoli sulle rive del Mississippi, il secondo padre è più solido, la madre inquieta e sfuggente. Truman ha per compagni di gioco Harper Lee, la futura autrice di Il buio oltre la siepe, e la propria fantasia, quel «piccolo demone» che a nove anni gli offre già la certezza di essere un artista. «Troppo carino, di carnagione troppo chiara; ogni suo tratto era modellato con estrema cura; una dolcezza femminea gli addolciva i grandi occhi, castani come i capelli»: si descrive così, camuffandosi in un personaggio, nelle prime pagine del romanzo d’esordio, Altre voci altre stanze. Il ventenne geniale dalla vocetta acuta si è tolto in fretta di dosso i panni di tuttofare nella redazione del New Yorker; il primo romanzo ha un gran successo, «è incredibile che una persona così giovane riesca a scrivere così bene», si sente dire, «Incredibile? Io scrivevo da mattina a sera da appena quattordici anni!» si stizzisce a posteriori l’interessato. Che picchia senza posa i tasti della sua macchina da scrivere, viaggia, si fa amare e odiare nel mondo editoriale e cinematografico americano, continuando a cambiare pelle: è quello dei racconti «teneri e tristi», dal cuore sempre un po’ straziato; l’infanzia nel grande Sud soffia di libro in libro come il vento che fa tremare l’albero su cui salgono i ragazzini a caccia d’avventure nel romanzo L’arpa d’erba. La timidezza, l’eccesso di sensibilità, l’andare in cerca di qualcuno davanti a cui non sia necessario nascondersi, certi minuscoli ricordi che spezzano il fiato, tipo la pioggia di gennaio e un bambino che ripara la madre sotto un ombrello di tela, la madre ha in mano un sacchetto di mandarini e da una casa escono le note di un pianoforte, una musica triste ovviamente, e lei sente un gran freddo. E finestre sconnesse dal vento con «i loro festoni di ragnatele», padri che non tornano mai, ragazze che non si sono innamorate di nessuno se non del colore rosa, bambini che scoppiano a piangere, come nei romanzi di Dickens, solo perché vedono avanzare l’inverno. «È raro che le cose, una volta mutate, tornino poi come prima»: così Capote impara che il mondo ci tradisce sempre, ci toglie dal calduccio, ci sballotta e ci inganna, ci fa meno innocenti; è il destino di tutti, del piccolo Truman trapiantato senza paracadute dalla Lousiana al “bel” mondo newyorchese o hollywoodiano; di Holly – quella di Colazione da Tiffany – che non sta zitta un istante e, per farsi passare il magone, sale su un taxi e si fa portare appunto da Tiffany, «niente di veramente brutto può capitarti lì… Se riuscissi a trovare una casa, nel mondo reale, in cui mi sentissi tranquilla come da Tiffany…». Anche Perry e Dick, gli assassini protagonisti di A sangue freddo, due che massacrano per niente una famiglia del Kansas nel ’59, hanno il loro buco nel cuore: «Io pensavo sempre a papà» racconta Perry a Capote, «e speravo che lui venisse a portarmi via con sé». Capote lo sente fratello, vorrebbe salvarlo e non può; e fa lo stesso con Marlon Brando o con Marilyn Monroe, quando li intervista («Marilyn! Marilyn, perché doveva andare tutto come è andato? Perché la vita deve essere un tale schifo?»), sembra spietato ma al fondo è pietoso, tocca a mani nude le loro ferite, li mostra nudi e fragili come aveva mostrato sé stesso nei primi romanzi, come farà ancora nell’ultimo racconto, Un Natale, dove torna a essere il piccolo Buddy. Quello che va all’ufficio postale, compra una cartolina da un soldo e scrive: «Ciao papà spero che tu stia bene io sto bene e sto imparando a pedalare il mio aeroplano e così svelto che presto volerò nel cielo e così tieni gli occhi aperti e sì ti voglio bene Buddy».
Truman Capote il cantiere del camaleonte, Paolo Di Paolo, La Stampa.
24 agosto 2014