«Sono un ricordo di Fellini»
Ricordi il personaggio di Amarcord? Tornava a casa con i pantaloni puzzolenti per la purga e la schiena piegata di colpi. Io ero lì, in paese, nel film. Vediamo se ti ricordi: sono quello che passa in moto avanti e indietro, non si vede mai la mia faccia, sono un ricordo di Fellini. Certo: siamo musiche che rimangono negli altri.
Osvaldo Soriano, Fútbol
Prima di tutto, c’è il vento. Il vento all’inizio dei Vitelloni, mentre eleggono Miss Sirena 1953 e l’estate sta per finire. Il vento che poi torna, alla fine della festa; torna sempre. Il vecchio attore finito nei teatri di provincia che dice: “Vento di mare, vento notturno!”. Il cinema di Federico Fellini è sempre attraversato da un venticello o da un ventaccio che altera le prospettive, fa volare i cappelli, scompiglia tutto, a volte è un sibilo, altre un ululato. Così, di vento in vento, dai Vitelloni ad Amarcord fino a La voce della luna, dove fa tremare i vetri e scuote la grande quercia in una notte da lupi.
A vent’anni dalla morte, di Fellini è rimasto qualcosa di più ampio, di più confuso che la memoria di questo o quel film. Mi verrebbe da dire, è rimasto un vento, che ha continuato a infilarsi nell’immaginazione degli artisti, ad attraversarla, a influenzarla. Basti pescare, tra i tanti esempi, le parole di Tim Burton a proposito del suo Big fish (2003) confessa di avere pensato «al gotico di provincia e ai film di Fellini». Si può dunque essere influenzati dai film di Fellini quasi in blocco, dal complesso della sua opera, da qualcosa che, prima di essere un aggettivo, è un’atmosfera. Ma come la si spiega? Come la si può raccontare, fissare attraverso le parole? Gli scrittori possono aiutarci.
Intanto, non è impresa facile, per un artista, diventare un aggettivo. Federico Fellini fingeva di essere disturbato dall’abuso di fellinesque, «felliniano», entrati troppo presto – si lamentava – nei vocabolari. In realtà, se l’aggettivo può da una parte ingabbiare, consente dall’altra a un’opera di andare al di là di sé stessa, per diventare appunto un’atmosfera, una musica, un ricordo collettivo. Se dico «felliniano», appare all’istante un mondo circense, poetico: il mondo degli attori del varietà in frac, di donne matronali dai grandi seni che lavorano nelle tabaccherie, o di un borgo di provincia avvolto dalla neve e dalla nebbia.
Natalia Ginzburg, uscendo dalla proiezione di Amarcord, nel 1974, raccontò di avere sempre sospettato che così fossero la neve e la nebbia e di aver saputo grazie a Fellini, sulla neve e sulla nebbia, «tutta la verità». Ne è sconvolta, dice, perché «sapere la verità sulle cose che abbiamo sempre portato con noi» fa tremare e vacillare, dà le vertigini. Come Ginzburg, sono un esercito gli scrittori del Novecento catturati dal cinema di Fellini: escono dalla sala con la testa in movimento e sentono il bisogno di fermare su carta le impressioni. Per pochi altri cineasti si è ripetuto un dialogo così acceso con il mondo della letteratura. C’è chi, come Moravia, veste i panni di critico e segue i film di Fellini praticamente uno per uno; e c’è chi, come Pasolini, Calvino o Eco, si sente semplicemente chiamato in causa, ha voglia di aprire un confronto. Si potrebbe riscrivere una piccola storia o contro-storia della letteratura italiana del secondo Novecento passando per Fellini. Il colpo d’occhio fa impressione: per il numero degli autori, la mole degli interventi, ma anche perché negli ultimi decenni le strade di cinema e letteratura si sono molto allontanate. Fino all’altroieri, invece, si incrociavano di continuo: anche solo per tenersi d’occhio, perfino per invidia. Mario Soldati nel ’63 confessa candidamente di avere qualche resistenza verso Otto e mezzo, senza averlo visto: «Ho paura che mi piaccia troppo, che sia troppo bello».
Gli scrittori e Fellini si osservano, si corteggiano, talvolta si scontrano. Spesso lui li chiama a collaborare, e non è solo il caso di Flaiano o di Tonino Guerra. Negli anni chiederà supporto al poeta Zanzotto, ad Andrea De Carlo, a Cavazzoni. Ad Adele Cambria, per La città delle donne, farà una richiesta insolita: «Adelina, me le scrivi due paginette sulla musica della vagina?». Capita anche che alzi il telefono soltanto perché un libro gli è piaciuto e vuole vedere che faccia ha l’autore: è successo a Marco Lodoli, a Susanna Tamaro.
Fellini ruba agli scrittori, cattura suggestioni, le trasforma in qualcosa di suo. E gli scrittori lo stanno a guardare come si guarda un paesaggio, incantati dai colori, dalle trasformazioni, dai cambi di vento. Si lasciano trascinare nelle sue fantasticherie: a Dino Buzzati capitò di starlo ad ascoltare per ore sulle frequentazioni che il regista aveva nel mondo dei maghi. Storie di levitazioni, piccoli e inquietanti miracoli, spiriti e misteri di varia natura. Con Parise si trovò a dialogare sul fascino ambiguo di Roma: «è una città orizzontale, di acqua e di terra, sdraiata, ed è quindi la piattaforma ideale per i voli fantastici».
Non mancano le liti e le polemiche. Pasolini parlò – difficile dire con quanta benevolenza – del lato comico dei film di Fellini evocando un «riso stridulo che spesso ha stecche infernali. Un riso nervoso, quello che hanno le puttane quando si parla di cose sporche, o un masochista quando si parla di fruste». Con Goffredo Fofi, più che un vero dialogo, fu un «c’eravamo tanto odiati». L’intellettuale umbro ebbe obiezioni, di natura soprattutto politica (Fellini “cattolico”? Fellini democristiano inconsapevole?) su quasi tutti i film, ma il regista volle conoscerlo lo stesso: «mi lasciò sfogare, lentamente, sinuosamente, e affettuosamente, conquistandomi». Un faccia a faccia con Oriana Fallaci andò malissimo: Federico e Oriana arrivarono quasi agli insulti. Lei lo provocava, gli dava del bugiardo. Lui non riusciva a tenerle testa ma si sfogò con Montanelli, dando della bugiarda a lei.
La zona forse più sorprendente di questa «fellineide» degli scrittori italiani, ha un lato anche più intimo. C’è chi riconosce di avere con Fellini un debito non tanto intellettuale, ma esistenziale. Calvino si specchiò nei Vitelloni e nella Dolce vita come se qualcuno avesse scritto la sua autobiografia: Fellini – scrisse – «ci obbliga ad ammettere che ciò che più vorremmo allontanare ci è intrinsecamente vicino». Tabucchi fu traumatizzato dalla Dolce vita. Era un diciassettenne della provincia pisana, e dopo aver visto Anita Ekberg fare il bagno nella Fontana di Trevi, decise di partire per un altrove: «Quel film mi aprì gli occhi. A Parigi non sarei mai andato senza La dolce vita».
Prefazione a Ci ha raccontati come nessuno. Fellini visto dagli scrittori, a cura di Paolo Di Paolo, Empirìa, 2013.
16 settembre 2015