Sognare la Storia
Istruzioni per non morire in pace
Le prime immagini: un valzer ballato sopra un cumulo di macerie; cappelli di paglia che diventano cuffie chiodate; carta, cumuli di carta – banconote, lettere – che si spostano, che viaggiano. Istruzioni per non morire in pace non nasce come un testo teatrale sulla Grande Guerra. Nasce piuttosto come un’indagine su un mondo – il mondo tra il 1914 e il 1918 – che precipita dentro una catastrofe. I personaggi sono lì, sul crepaccio: chi lavora alle poste, chi in fabbrica, chi prega Dio, chi viaggia e insegue ambizioni, chi recita, chi dipinge, chi spia, chi compila piani militari, chi scrive. Di ciascuno colpisce l’inconsapevolezza, un’ignoranza che è anche nostra, di tutti: l’ignoranza del futuro. Il futuro – per Lelo, per Berto, per Fernando, per l’Ufficiale, per Josephine, per Stefan Zweig o per Lev Trotsky – è poco più di una nube minacciosa. Mentre la tempesta si prepara,
loro – come noi – vivono, amano, progettano, sperano. Per qualcuno, dopo i decenni di una lunga pace europea, la guerra ha perfino il bagliore della Grande Occasione: economica, politica, esistenziale. Gente comune, anonima incrocia o sfiora la traiettoria biografica di personaggi consegnati alla Storia: uomini di potere, artisti, rivoluzionari. Ma tutti prendono parte allo stesso, drammatico destino: quello di veder crollare il mondo com’era, il mondo come lo conoscevano. Vanno in polvere vite, idee individuali e collettive, certezze private e pubbliche, vanno in polvere convinzioni, utopie, steccati sociali. Prima nel presagio e poi nell’eco assordante di questo crollo, si sviluppano le parti di questo trittico – “Patrimoni”, “Rivoluzioni”, “Teatro” – autonome e complementari. Il tentativo, per via teatrale, di una debordante, chiassosa, disperata e vitalissima foto di gruppo sull’orlo del baratro, un dagherrotipo affollato e mosso – rubato un istante prima del buio.
Già in altre occasioni, ho lavorato su tessere di una possibile contro-storia emotiva dell’Italia novecentesca. Non tanto per sapere come siano andate realmente le cose, né come siano state registrate dai giornali, ma dai cuori, e quali segni abbiano lasciato nei ricordi di tutti. È venuto naturale, perciò, partire da diari, testimonianze dirette, lettere: vite di uomini illustri e non illustri che hanno lasciato, da qualche parte, un segno scritto. Il filo drammaturgico – la storia di una famiglia comune – si è intrecciato a infiniti altri: in un’alleanza tra finzione pura e documento che ha reso il testo uno straripante patchwork. Mi piaceva l’idea di far passare, che so, il personaggio Berto nei dintorni del caffè parigino dove viene ucciso – nell’ultima sera di luglio del 1914 – il leader socialista Jean Jaurès.
Nei suoi saggi più discussi, lo storico Hayden White si dice convinto che la storia non sia una scienza esatta, e per questo difende il passaggio dalla realtà alla narrazione. La Storia nella forma di una storia non toglie niente alla verità, sostiene. Si fa soccorrere da una vecchia conferenza di Gertrude Stein per dire che un evento è soltanto «una esteriorità priva di interiorità»: qualunque racconto perciò prevede una interiorità, anche la più asettica delle testimonianze. Un racconto non è la realtà, certo, ma una somma di racconti può probabilmente fornirci «una percezione realistica» di un evento storico. Ecco perché lo storico White non intende sbarazzarsi di cinema e letteratura. Anzi: certi romanzi di Mario Vargas Llosa o di E.L. Doctorow sono forse «meno veri per il fatto di essere prodotti di fantasia»? Ho pensato più volte, scrivendo, proprio a Ragtime di Doctorow: in una New York primo Novecento in piena trasformazione, lo scrittore fa incrociare i destini di Henry Ford e del mago Houdini, di un pianista afroamericano e di una modella di nudo finita nella cronaca nera. Don DeLillo ha scritto che, nei romanzi del collega, le semplici vite si caricano del passo della Storia. Si può ottenere lo stesso effetto anche a teatro?
Un effetto che volevo fosse di sogno, se possibile. Il mio sogno della Storia. Il sogno da svegli, o il sogno-incubo che costringe a svegliarsi. La descrizione che Stefan Zweig fa di un «mondo senza sonno» in un articolo scritto nell’estate 1914, mi ha guidato. Scrive Zweig: «Ora l’umanità tutta è agitata, di notte come di giorno, un impellente, spaventoso stato di veglia sfavilla tra i sensi eccitati di milioni di persone, il destino penetra invisibile tra le migliaia di finestre e porte, e scaccia il sopore, scaccia l’oblio da ogni giaciglio. Più breve è ora il sonno del mondo, più lunghe le notti e più lunghi i giorni». Ho cominciato a scrivere spiando i sogni diurni di Lelo, la sua ambizione di attore; il sogno di Berto, aspirante pittore; il grandioso sogno dell’acciaieria dei fratelli Gottardi, ma anche i sogni di Trotsky o di Jaurès, di d’Annunzio o di Proust che li racconta nelle prime pagine del suo grande romanzo. E Berto stesso sogna Freud che parla di sogni, di soldi, di merda. Nei sogni notturni, invece, abbondano presagi sinistri. A Suor Maria appaiono i suoi due fratelli in divisa militare. I Gottardi vedono crollare la loro impresa. A Berto, chissà perché, appare Sarah Bernhardt in volo su una seggiola. Così, di sogno in sogno, si è alimentata la visione di un mondo che sognava un futuro luminoso e carico di promesse. Non va come era lecito sperare. Anche i sogni della politica sembrano stonati: le magnifiche sorti vengono sbarrate dalla congiura dell’Irrimediabile. Le colpe si sfarinano, evaporano nel fragore dei cannoni. Ma qualcuno va incontro a quei lampi e a quei tuoni come a un sogno di gloria. E poi? Le coscienze dei sopravvissuti saranno assediate, nei sogni, dalle voci dei soldati uccisi? Sarà facile, per i sopravvissuti alla guerra, morire in pace? Avranno nuovi sogni? E noi?
Istruzioni per non morire in pace, Paolo di Paolo, regia Claudio Longhi, testo pubblicato da Edizioni di Storia e Letteratura, 2015.
5 dicembre 2015