La formazione dello scrittore
Venerdì 7 settembre 1990 – la scuola non è ancora iniziata – scendo in cucina all’ora di pranzo. Ho da poco compiuto sette anni. Scendo con un paio di fogli strappati a un’agenda di mio padre rimasta inusata. Dico che si tratta del primo numero di un giornale che ho appena fondato, Il Menù. Conterrà il menù del giorno e alcuni pensieri. Lo porterò avanti a intermittenza fino quasi all’adolescenza.
Mercoledì 22 dicembre 1993 torno da scuola, è l’ultimo giorno prima delle vacanze di Natale, cerco nella cassetta della posta, come sempre, la copia di Topolino. Non c’è, arriva sempre e maledettamente il venerdì, a volte il sabato. La mia settimana ruota intorno a quel giornale di fumetti come intorno a un perno, alimenta la mia fantasia, i miei sogni di gloria da disegnatore. La mia seconda residenza, anzi forse la prima, è Paperopoli, con le sue giornate placide e dal cielo sereno. Conosco indirizzi, sono esperto di giardini, amache, nonne. Tra qualche giorno, all’Eur, i miei mi portano a una grande mostra per i sessant’anni di Topolino. Sarà uno degli appuntamenti fondamentali della mia vita di decenne e non solo.
Mercoledì 16 dicembre 1998 sono un aspirante giornalista pronto a incontrare il suo mito. Sono rimasto incollato a un termosifone del Liceo Parini di Milano per tre quarti d’ora, aspettando il momento di incontrare, da imbucato, Montanelli. Un ragazzo mi chiede se ho una sigaretta. No, gli dico. Poi Montanelli arriva, gli dico chi sono – quello che l’ha tempestato di lettere negli ultimi paio di anni -, lui allunga la sua mano sulla mia guancia. Ah, sei tu, dice. Morirà domenica 22 luglio 2001, mentre a Genova infuria la battaglia ed è rimasto il sangue sulle strade, e io sono quasi convinto che non farò mai il giornalista.
Martedì 21 marzo 2000 comincia la primavera, la prima di un secolo nuovo, o l’ultima del secolo vecchio, non ci si è mai messi d’accordo. Quel giorno o forse due o tre dopo, suonata la campanella, dico a un paio di amici che devo passare in libreria. Perdiamo l’autobus, dice Lorenzo. E se ne va. Marco e Fabiana restano, io devo chiedere Lamento di Portnoy al libraio. Non so bene come si dice Portnoy. Lui me ne dà una copia vecchissima che in copertina porta la dicitura Sesso scatenato senza censure. F. se ne accorge, io avvampo. Leggere, ha detto qualcuno, è anche una preferenza sessuale, me ne sono accorto leggendo Moravia e Roth, forse prima del dovuto, forse no.
Venerdì 18 agosto, a Salamanca, Spagna, assisto a tramonti epocali, mentre le cicogne battono il becco da guglie barocche. Torno nell’appartamento dell’infermiera Emilita Hernandez García e mi butto sul letto a leggere un romanzo di Marías, Un cuore così bianco, di cui mi seduce il dipinto in copertina. Una ragazza nuda, un uomo che la spia.
Giovedì 15 marzo 2001, pomeriggio, sto facendo i compiti, svogliatamente. Mia madre esce per alcune spese, le chiedo di passare in libreria. Sbuffa. Per me è importante, vitale. Esce un libro di Tabucchi, si chiama Si sta facendo sempre più tardi. Devo averlo. Lo aspetto come qualche anno prima i giornali a fumetti. Non vedo l’ora che mia madre torni. Corro nel finire i compiti, quando arriva me lo giro fra le mani come un oggetto luminoso. Di Tabucchi, nel giugno 1997, ho letto Sostiene Pereira, chiuso in una Panda 750 Young parcheggiata al sole. Sudavo come Pereira nell’estate lisbonese del 1938. Ero entusiasta. Come si fa a scrivere così?
Sabato 8 settembre 2001 c’è la festa patronale nel paese alle porte di Roma in cui vivo. Sto leggendo la prima parte della Recherche di Proust. Una folgorazione, di cui resta traccia perché, con una stupida matita rossa e blu, ho riempito di segni il Meridiano Mondadori. Qualche giorno dopo è l’11 settembre, nel pomeriggio vado a scuola guida – controvoglia come sempre – ma ho la testa altrove.
Martedì 18 giugno 2002 faccio il tema di maturità, o forse il giorno dopo. Fa caldo. Parecchio. Scelgo un tema sui luoghi, i luoghi e la memoria, metto in mezzo Proust e Lalla Romano, che è morta un anno prima e per un suo romanzo aveva pescato un titolo da Proust. La penombra che abbiamo attraversato. L’avevo letto a bordo piscina l’anno prima. Un po’ guardavo Eleonora Semprini, un po’ leggevo. Il pomeriggio del 19 giugno 2002, o forse era il 20, mi sento uno che sa scrivere, per la prima volta. La professoressa di storia dell’arte, Vittorini – ha il cognome di uno scrittore – mi dice che lei e i suoi colleghi non hanno corretto il tema di uno studente, ma il tema di uno scrittore. Addirittura, dico. Sì, dice lei. Il pomeriggio, a casa di Marco, resto solo per mezz’ora con F., non ho il coraggio di baciarla, le accarezzo solo i capelli. Quando, martedì 2 luglio, chiudo il mio orale leggendo una poesia di Montale – finisce con «Il mio sogno di te non è finito» – è per lei la mia dedica implicita.
Maggio 2003 anticipa l’estate più calda del secolo. Già si soffoca, e sono a Torino. Ho mandato al Premio Calvino una raccolta di racconti buttati giù l’estate prima, la più libera e larga di tutta la vita. Martedì 13 maggio un giurato mi guarda con diffidenza, mi dice: a leggerla, abbiamo pensato che lei fosse un professore in pensione. Devo ancora compiere vent’anni, rispondo. Il libro era solo, lo so, una prova di voce, pieno zeppo di citazioni e di imitazioni. Non riesco a rileggerlo.
Lunedì 2 febbraio 2004 sto studiando per un esame universitario – letteratura latina. Squilla il telefono, c’è un rumore di fondo. Sono Enzo Siciliano, dice una voce gentile e allegra, ho letto il suo racconto, lo pubblichiamo su Nuovi Argomenti. Mi piace il tono dolente e ironico. «Dolente» e «ironico»: penserò molto a lungo a questi due aggettivi. Ci penso ancora.
Martedì 21 dicembre 2004 sono a Milano, in una stanza orrenda di un piccolo albergo. Tra poco ho la mia prima vera presentazione. La relatrice, da poco, ha fatto sapere che non può più venire. Non sono arrivate nemmeno le copie del libro. Scoppio a piangere. Vorrei scappare.
Durante l’incontro, un milanese accigliato del pubblico sottolinea acido in un suo intervento «il simpatico accento romano del giovane autore».
Domenica 13 febbraio 2005 esco per la almeno decima volta dalla casa di Antonio Debenedetti, vicino a Fontana di Trevi. Stipata di libri all’inverosimile, come sempre piace immaginare sia la casa di uno scrittore. Nel registratore ho impressa la sua voce che racconta della sua confidenza con gli dèi. Figlio di Giacomo, è stato da bambino sulle ginocchia di Saba, ha avuto Caproni per maestro elementare, Elsa Morante gli portava regali, Ungaretti è stato il suo professore all’università. Se ho fatto una scuola di Novecento italiano, è stata in quel salotto con le poltroncine rosse e gli scuri sempre chiusi.
Nel corso del 2006 giro un po’ d’Italia con qualche tappa fuori per inseguire gli scrittori. Mi pare che conoscerli, intervistarli sia un modo per rubargli segreti che si rifiutano di rivelare. Con la scusa di un libro, ne incrocio una ventina. Li vedo assopirsi su un divano, incazzarsi, condire un piatto di patate lesse, vantarsi come bambini, essere fino in fondo i coglioni che sospettavo, essere più intelligenti e crudeli di quanto prevedevo. Imparo qualcosa da ciascuno, nell’istante esatto in cui loro non si accorgono, usciti dalla parte, di dare il meglio. Lungo rue Monge, a Parigi, sotto la pioggia di lunedì 13 marzo, non mi fido ancora della mia vocazione.
Di tanto in tanto, come per esempio giovedì 19 aprile 2007, ho la sensazione di aver conquistato qualcosa. Le ore sulle scale bianche della facoltà di Lettere, contano di più, producono di più di quelle in aula. Lavoro per una piccola casa editrice, in certi tardi pomeriggi ho il mondo il mano, o così sembra. Ho quasi ventiquattro anni, bozze da correggere, un libro che deve uscire, molti meno dubbi di quelli che si preparano per il futuro, a stormi.
Martedì 20 maggio 2008 Milano è bellissima, luminosa. Camminare per via Paolo Sarpi, la mattina, dà una strana euforia. Mi fermo per il cappuccino in un bar tenuto da cinesi. Dormo poco, approfitto dell’alba per scrivere un minuscolo romanzo, finire una tesi di laurea, buttare giù articoli. Per il resto, faccio il redattore televisivo. Da dove viene tutta questa energia? Convoco i fantasmi, a me cari, di Capote, di Perec, di Magritte. Le frasi, per la prima e forse unica volta, mi restano impigliate fra le ciglia, le vedo appena sveglio. Le riconosco. Intanto mi prendo una cotta per una ragazza sbagliata, o una cotta sbagliata per una ragazza. Ma mai ho scritto con tanto desiderio e tanta incoscienza, gli amori sbagliati aiutano, e anche le città estranee e bellissime in primavera.
Venerdì 9 gennaio 2009 Parigi è letteralmente gelata. Soffia un vento siberiano che spacca le orecchie e le dita, se restano scoperte. Cammino da solo per chilometri, camminate che torneranno utili per un romanzo che ho appena cominciato a immaginare e scriverò un paio di anni dopo. Antonio Tabucchi entra infreddolito in un caffè di Saint-Germain, si toglie il berretto, sorride. Non so bene cosa dire, fin lì l’ho sentito solo per telefono e per lettera. Gli chiedo una dedica su quel libro che nel marzo del 2001 avevo tanto atteso, Si sta facendo sempre più tardi. I titoli a volte sono presagi. Mangiamo in un ristorante thailandese. Ho le labbra infuocate dal piccante e dal gelo della giornata, una strana e felice stanchezza, tornando in albergo. Gli ho raccontato la storia che ho in mente, ha a che fare con un ragazzo degli anni venti. Volevo cercarne la tomba al Père Lachaise, ma era chiuso per ghiaccio e neve. Torna in primavera, mi dice Tabucchi, e andiamo insieme. Spengo la luce per dormire. Ho bisogno di fermare alcune frasi, la riaccendo. Spengo, provo a dormire, non riesco, riaccendo. Sul volume dei racconti di Tabucchi che ho portato con me c’è una frase che dice: «E intanto noi viviamo, o scriviamo, che è lo stesso, in questa illusione che si conduce». Ho venticinque anni, la formazione sembra finire qui. Non finisce mai.
Da La formazione dello scrittore, a cura di G. Dadati, Laurana, 2015.
17 dicembre 2015