Con Banana Yoshimoto
Il suo primo libro – si chiamava Kitchen – è del 1988. In quasi trent’anni di lavoro, ha dato forma a un mondo che coincide con lei, e dunque porta il suo nome: che convinca o meno, di libro in libro, Banana Yoshimoto l’ha alimentato e tenuto vivo. Quasi sempre ci sono gatti, nonne che muoiono, delfini, e soprattutto questo: persone – così scrive nel nuovo libro – che «si fingono forti ma si portano dentro ogni sorta di segreto». Come manga tristi, i suoi romanzi e racconti sono avvolti dalla stessa luce lattiginosa e sonnolenta; il tempo scorre come in un videogioco rallentato; il confine tra ciò che accade nella testa e ciò che accade fuori sparisce di continuo. Guarire dal dolore è sempre la prima e l’ultima urgenza dei suoi personaggi: richiede viaggi, in avanti o a ritroso, nella geografia e nel calendario dei sentimenti; trasformazioni, scoperte, e talvolta gesti estremi. Ora, con Another World (Feltrinelli, pp. 128, euro 14, trad. di Gala Maria Follaco), Banana chiude il Ciclo del Regno, la tetralogia di romanzi quasi fantasy intrapresa tre anni fa con Andromeda Heights. Qui, una ragazza cresciuta da due padri vive la propria educazione sentimentale fra il Giappone e un’isola greca. Ma più che la trama, al solito, conta il marchio di fabbrica. La prosa sempre più rarefatta, le sentenze sulla vita, le domande («troverò la pace?»), la solitudine. E un’androgina e adolescente sensualità, che nemmeno l’estate di Mykonos riesce a scaldare davvero. Kataoka Noni vede Kinoshita su una scalinata di pietra, comincia a parlargli, lo trova affine; gli racconta i suoi lutti e il suo rapporto con le piante («sono sempre state come sorelle»). Kino parla a lei di sua moglie, «la sovrana del regno dei gatti», morta in un incidente. Il ritorno in Giappone, al «suono dell’acqua in mezzo a cui ero cresciuta», il confronto con l’assenza magica di sua nonna, con una madre capace di essere amica dei giardini e delle creature vegetali, spingono Noni verso l’altro mondo del titolo – un regno di «grazia superiore».
I punti di contatto fra romanzo e romanzo sono moltissimi, e questo non vale solo per la recente quadrilogia. Se guarda all’intera sua opera, che impressione le fa?
«Nella mia carriera ho sempre cercato di trasmettere un messaggio e continuo a farlo. È un messaggio molto semplice: che la vita valga la pena di essere vissuta (niente di più e niente di meno, non la si deve sottovalutare ma neanche dobbiamo prenderci troppo sul serio). La critica si mostra talvolta poco generosa nei confronti dei miei libri, ma io mi sento sempre – e lo sento adesso più che mai – in comunicazione con le vite di una parte dei miei lettori, so che la mia voce arriva fino a loro. E sin dall’inizio ho sempre voluto questo, per me era la cosa più importante: sono felice di esserci riuscita.
È bello sapere che ci sono persone che si immergono nel mondo dei miei romanzi così come ci si immerge nell’acqua di una sorgente termale, e spero sempre che alla fine si sentano meglio, anche solo un poco. È ciò che ho sempre desiderato. E in questi trent’anni penso di esserci riuscita».
«Io non ho ancora capito molto bene come funzionano gli esseri umani» dice la voce narrante del romanzo. E lei?
«Ho l’impressione che tra me e la protagonista di Another World non ci siano grandi differenze: mi sembra di comprendere i cani meglio degli uomini, e in tutta onestà gli uomini mi fanno anche un po’ paura. Shizukuishi, però, ha ricevuto un’educazione molto più particolare della mia, e nel suo carattere ci sono elementi eccentrici che non ritrovo nella mia personalità, perlomeno non fino a quel punto».
La “Disneyland botanica” che appare nel romanzo rende ancora più protagoniste le piante, i giardini, la natura. È anche questo “another world“? E cosa può insegnarci?
«Mi immaginavo un posto diverso dai soliti giardini botanici, qualcosa di più simile ai progetti di Derek Jarman: un luogo che racchiude tanti mondi in miniatura.
La differenza principale tra la natura di un giardino e quella incontaminata, secondo me, è che nel primo caso ci troviamo di fronte al prodotto della maestria di uno o più esseri umani, una maestria che in alcuni casi comprende anche una percentuale di follia».
Si può davvero salvare qualcuno con il proprio modo di essere? Come si conquista quella «grazia superiore» di cui lei parla nel libro?
«Penso che gli esseri umani possano aiutarsi, persino salvarsi a vicenda, ma solo se capiscono che non devono strafare. A mio avviso possiamo e dobbiamo accontentarci di sollevare l’umore di chi ci sta intorno, di aiutare gli altri a star meglio. Io ci provo con i romanzi, che arrivano al cuore di tante persone, e ho intenzione di continuare così».
Il desiderio di un altrove si avverte molto forte in questo romanzo, che inizia su un’isola greca. Lo sente anche lei? Si può fuggire dal presente che non ci piace? E se pensa alla minaccia del disastro ambientale, alle minacce del leader nordcoreano, ai missili che cadono nel Mar del Giappone, al terrorismo internazionale, come reagisce emotivamente?
«Il mondo è e sarà sempre pieno di problemi, l’epoca in cui viviamo ci mette di fronte a enormi trasformazioni, ma penso che vi siano almeno due aspetti fondamentali, due punti da prendere molto sul serio: le produzioni alimentari locali e, più in generale, la capacità delle realtà locali di provvedere al proprio sostentamento, alla gestione del territorio, allo smaltimento dei rifiuti. Nel caso del Giappone, secondo me, il sostegno alle piccole e medie imprese costituisce un aspetto di grande importanza. Se pure esistesse una via di fuga dal mondo, questa non potrebbe mai metterci al riparo da noi stessi. Perciò penso che per ciascuno di noi sia essenziale guardarsi dentro, accettare ciò che si è senza bugie né fragili illusioni».
Tuttolibri – La Stampa, 29 settembre 2019
5 settembre 2019