Dietro le quinte. Umberto Orsini, Sold out
Dietro le quinte, l’unica volta che – da intruso – ho spiato, ho trovato buio, trambusto, un viavai rapido e concentrato. Abiti di scena, oggetti, trucco. È come mettere il naso nella cassetta degli attrezzi del prestigiatore. Dietro le quinte, quando gli attori, sul finale, stanno per tornare sul palco a prendersi gli applausi, c’è una tensione contagiosa, un’elettricità che si comunica per via muscolare anche a chi non è parte in causa. Dietro le quinte, prima dello spettacolo, un attore esperto riconosce il pubblico già dal brusio, riesce a intuire il numero degli spettatori, talvolta perfino l’umore. Così mi ha spiegato Umberto Orsini. Dietro le quinte, quando la sala è vuota – sono i giorni lunghi e incerti delle prove – l’attore prende le distanze dal personaggio che sta costruendo. “Sto costruendo un personaggio”, mi ha detto Orsini la prima volta che ci siamo visti. E mi ha parlato subito dei segni sul copione. Li archivio tutti, i copioni – così ha detto – e nei segni di matita, nel loro sovrapporsi, integrarsi, lettura dopo lettura, c’è come la radiografia di una carriera. Personaggio per personaggio. 1957, interpreta Peter in un adattamento del Diario di Anne Frank. 2019, più di sessant’anni dopo, è il costruttore Solness, protagonista di un testo meno noto e perturbante di Ibsen. Lavora per capire chi sia il vecchio Solness, che cosa può prestargli di sé stesso, quali domande lasciare aperte, quali chiudere. Solness è un costruttore edile, ha tirato su edifici per tutta la vita e – ora che sente avanzare la gioventù altrui come una minaccia – vuole sfidare i propri stessi limiti. Così Orsini rimugina. Si interroga. Capisco che a lungo cerca soluzioni nel profondo di sé, resta in silenzio finché non trova almeno un dettaglio – un modo di muovere le mani, o di calcare una parola. Arriva il momento di andare in scena, ma il personaggio non è mai dato una volta per tutte, alla centesima replica può ancora guadagnare qualcosa o privarsi di altro. Mi ha spiazzato spiegandomi che se un applauso arriva in un momento che lui ritiene sbagliato, deve fare in modo di evitarlo. Eppure gli applausi a scena aperta fanno piacere. Non importa. Ma come si evita un applauso?, gli ho chiesto. Bisogna far correre la battuta in un altro modo, bisogna che il pubblico non senta l’accento.
Sui divani bianchi della sua casa di Monteverde, a Roma – elegante, molto sobria; nessun cimelio, il materiale d’archivio chiuso con un certo disordine nei cassetti – lo spingo a teorizzare. Lui, appena rileva nelle sue stesse parole la spia di un atteggiamento pedagogico, torna indietro, fa retromarcia. Non solo per understatement, ma anche per fedeltà alle cose che gli accadono e gli sono accadute, a un mestiere che non si impara mai una volta per sempre. D’altra parte, nella sua biografia fittissima, nella sua carriera luminosa, tiene a sottolineare la casualità dell’essere diventato attore: come fosse la dimostrazione vivente di chi non era nato con la vocazione o il sacro fuoco, ma a un incrocio fortunato fra occasioni e destino ha preso il treno giusto. Certo, poi era un treno diretto a Roma – settembre 1955 – in cui per compagno di viaggio inatteso avrebbe avuto Orson Welles. E se questi non sono segni…
Siamo partiti con l’idea di un’intervista, avevo con me un quadernetto pieno di nomi – una specie di Hall of Fame su carta quadrettata. Da Laurence Olivier a Fellini, da Julie Christie a Charotte Rampling. Ho cominciato a fare le prime domande – la prima in assoluto: cosa diresti oggi che sei Orsinia Umberto detto Betollo se lo incontrassi da qualche parte -, ho registrato, preso appunti. Così si fa. E invece, all’improvviso, dal niente – come un prestigiatore – un pomeriggio ha tirato fuori quattro o cinque pagine, forse dieci, e me le ha lette. Erano qualcosa a metà fra diario e memoria, o forse una specie di colloquio con sé stesso, a cui aveva deciso di dedicarsi nei lunedì di riposo. Ecco il libro!, ho pensato. C’è già. E non c’è nemmeno bisogno di vere domande; basterà appuntarsi un nome che potrebbe sfuggire, ricordargli di non perdere quell’aneddoto, spingerlo a non lasciare indietro quel ricordo. Via via che nella mia posta elettronica arrivavano le pagine del libro che avete fra le mani, venivo come avvolto dal flusso del racconto, dal suo movimento ondivago, dal suo oscillare fra passato e presente. Fluviale, materico – un racconto scritto come per essere detto a voce, tono basso, nessun grido, semmai un’alzata di sopracciglio, un sorriso appena sornione, un lampo degli occhi al fulmicotone, lo sguardo di chi la sa lunga e si stupisce ancora. Ci siamo infine messi in moviola, e ho avuto la stessa sensazione di quando mi ha fatto vedere uno spezzone video delle prove del Solness. Avevo accanto a me non Orsini, che era là sulla scena, ma Umberto che discuteva i movimenti e le battute di Orsini e tutto l’insieme, come se si fosse sdoppiato, riuscendo a mantenere una distanza complice e critica insieme. Così pure per queste pagine: fra una recita e una prova, nel neverending tour che porta avanti da sei decenni, mi chiamava al telefono per fare le pulci a sé stesso, per domandarmi domandandosi se avesse poi tanto senso raccontare questo o quello, e se ci fosse un modo per dirlo meglio, e se ci fosse qualcosa di troppo da togliere, qualcosa di buono da aggiungere.
Il libro, ovvero il racconto, avrebbe potuto non chiudersi, proseguire, tornare ancora indietro nei nebbioni dell’infanzia novarese, nello studio di notaio dove le segretarie si accorgevano che il bel ventenne leggeva gli atti come nessuno prima, o correre avanti verso quel piccolo ma mitologico ruolo nella Dolce vita di Fellini o restare più a lungo nella cucina di Luchino Visconti, o ancora, riagganciare di nuovo i tortuosi e intensi dialoghi con Luca Ronconi. Ma conservo una bella mail in cui Umberto ragionava sull’Ibsen da portare in scena, ansioso di riscrivere la storia del costruttore Solness su di sé, così si è espresso, “con la mia carne e con i miei gesti, cercando di raccontare soprattutto una storia. La mia partenza è sempre la stessa: c’era una volta il signor Solness che…”. Lì ho capito che il libro doveva interrompersi necessariamente sul punto di andare in scena, di portare sul palco quel personaggio nuovo. Perché dietro le quinte avevamo, aveva sostato abbastanza; e d’ora in poi avrebbe potuto starci giusto il tempo di intuire dal brusio il numero e l’umore degli spettatori, giusto il tempo di aspettare la chiamata per uscire di nuovo e prendere gli applausi.
Così ho capito che non aveva senso fargli la domanda che avevo tenuto per ultima. Troppo ingenua, o superflua. Che cosa resta del teatro, qual è il segno, la traccia di quest’arte magica, millenaria che si dà solo nell’istante – il tempo della recita – e poi si perde, svanisce? Orsini non si volta indietro più del dovuto, l’attore “con le mani in tasca”, come una volta per gioco si è definito, non sta con le mani in mano. È, con tutto sé stesso, dentro la meraviglia di “veder nascere un nuovo spettacolo, dal balbettio iniziale al grido finale”. Dal balbettio iniziale al grido finale. Insistere, perfezionare, raggiungere la quasi perfezione di un gesto con la g maiuscola, fare sì che tutto ciò che accade in scena, anche l’incidente, diventi magia, aspettare che una scena, o un intero spettacolo, da “bello ma difficile” diventi magari “difficile ma commovente”. Così, il giovane notaio di Novara diventato una leggenda della scena italiana può ancora sentirsi il texano che non ha visto Venezia. Ha lavorato con Visconti e con Zeffirelli e con Ronconi, è stato diretto sul grande schermo da Lizzani, da Vancini, da Magni e da Fellini, ma sente che gli manca ancora di vedere Venezia. Non è stato né Riccardo III né Re Lear. È una posizione privilegiata, dice. Non ho ancora fatto tutto. Non c’è tempo per annoiarsi di sé stessi, c’è tempo di sorprendere e sorprendersi, invece. E seguitare, perfezionando quell’unico lunghissimo spettacolo che è la somma di tutti gli spettacoli fatti, cambiare in esso, metterci la propria vita in movimento, tutte le età, la scansione giusta dei fiati e la battuta perfetta, il sottotesto che gonfia la parola e fa risaltare il respiro delle vocali. Fino al prossimo applauso. L’entusiasmo – sorprendente, sempre miracoloso – di chi, in una sera qualunque, non si lascia scoraggiare dal freddo, dalla pioggia, dalla stanchezza, e sulla porta di casa, verso le otto di sera, prende le chiavi della macchina e dice: “Dai, sbrigati, che facciamo tardi a teatro, andiamo a vedere Orsini”.
Sold Out, Laterza 2019 – prefazione
4 giugno 2020
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Teatro