Lubrico. Sul Casanova

Lubrico. Sul Casanova

Lubrico

Prima di tutto, c’è l’acqua. Si può dire che il film abbia preso il colore dell’acqua di Venezia: non del cielo, dell’acqua – scura, scintillante di notte, anche fetida, gorgogliante come perennemente gorgoglia nei canali. C’è anche il canonico mare-telone, sì. Ma nel Casanova l’acqua è soprattutto quella chiusa, inscatolata nella geometria della città; emana odore, a vampate, ne intuisci la presenza da piccole finestre, la dai progressivamente per scontata. Come a Venezia, nei fatti, accade. È un inchiostro, una colla scura che si salda alla tinta del cielo notturno, rischiarato dai fuochi del carnevale, o aperto come cateratta mentre diluvia.

Fellini “chiude” Venezia, ne fa un interno, una boule dai vetri opachi, sporchi. E la agita – anti-turistica com’è, la scuote: il letto a baldacchino scivola da un lato all’altro, sbanda, mentre si consuma l’ennesimo amplesso. La scuote con divertimento un po’ sadico da bambino invecchiato, mentre la condensa dei vapori acquei appanna gli specchi e si deposita sulla superficie del mondo, rendendolo umido – e lubrico – come lo sguardo di Casanova, come lo sguardo di Fellini. Umido, quando è sul punto di piangere: accade più volte. È il pianto infantile durante il discorso della marchesa sui tesori spirituali e sull’eternità. Umido dopo ogni orgasmo, come l’epidermide sudata. La liquidità dell’intero film è confermata dalla somma di umori, in senso letterale. Un ingorgo liquido: pianto, sudore (abbonda sulla fronte e sulle guance di Donald Sutherland) – e sperma, che pure resta invisibile.

Nella scena del nubifragio – Casanova è in carrozza a Parigi – c’è come una intensificazione della presenza acquosa: piove in abbondanza, Giacomo è eccitato dal viaggio nella capitale francese (celebra con esclamazioni infantili la città di Mazzarino e Voltaire) e inizia a masturbarsi. Diluvia, la carrozza attraversa un muro d’acqua che la mette in pericolo e lui si tocca freneticamente, fino alle soglie di un orgasmo che coincide con l’incidente in cui la carrozza si ribalta. Casanova ha celebrato il proprio cuore «giovane e ingordo» e si è rivolto direttamente al suo sesso: «Tu sei Parigi!» gli dice, chinando lo sguardo verso il pube. Fellini ci mostra poi la mano impazzita del libertino, l’ennesimo atto meccanico esagitato, qualcosa di ginnico, di scomposto, di esaltato. Nella carrozza-bolla, il desiderio di Casanova manifesta per intero il suo egotismo, la sua autoreferenzialità. Così la vita del libertino rivela il suo cuore masturbatorio – ed è una scena di masturbazione diversa da quelle cameratesche di Amarcord, col cigolio dei sedili di un’auto parcheggiata, o di La città delle donne, di nuovo collettiva, sotto un ampio lenzuolo. Non c’è nessuna dolcezza, nessun sogno adolescente: irreversibilmente adulto, Casanova esaspera una letizia che è come spiritata, ride e gode, gode e ride, ride sino quasi a piangere. La sua protesta contro il mondo a cui appartiene – quello dei cresciuti, dei destinati a invecchiare – è in quella ridicola e invincibile smania onanistica nella carrozza che traballa sfidando la bufera.

Fellini scommette su Sutherland per rendere maestosamente il lato patetico di Casanova, il lato disperato (il celebre finale del ballo con la bambola meccanica è di una malinconia invernale quasi insostenibile). Ma è piuttosto nell’architettura narrativa che riesce a rendere la tensione pre-orgasmica, a farne proprio la sostanza del film: il rinvio, l’estenuazione del piacere prima della sua acme, il tentativo di dilatare all’infinito quel prima – in fisiologia, plateau– al punto da farne una condizione permanente dell’esistere. Il godimento è misto così a un dolore sottile, a un’ansia, che il film non si limita a tematizzare, ma rende miracolosamente visibile.

Resta affascinante e misteriosa, a ogni ulteriore visione, quest’opera carnascialesca senza allegria, notturna come il cielo delle prime sequenze, da cui gli dei si sono assentati. «’Mbriacone» e «magnone» dicono le voci terrestri, e tali restano anche nel loro votarsi alla dea Luna: che comunque non ascende, non può ascendere, e precipita in acqua.

A metà strada fra il Satyricon La città delle donne, del primo assorbe gemiti di piaceri gastrici e genitali, contorsioni a lume di candela, trapiantando il tutto dal sottosuolo del I secolo alla cartapesta scenografica della Venezia settecentesca; del secondo esclude lo spirito sbruffone e un po’ misogino. Così, Casanova è un film più ambiguo – lubrico, appunto – e più disperato. Più funereo: «Che uomo strano che sei, Giacomo, non puoi parlare d’amore senza immagini funebri?» domanda la marchesa a Casanova, domanda Fellini a sé stesso. E, naturalmente, non può che evocare «la più dolce delle morti».

 da  Tutto Fellini, a cura di Enrico Giacovelli, New Books

 

 

4 novembre 2020

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