Mi piace Pasolini, non mi piacciono i pasoliniani. Mi piace la vitalità – disperata o no che sia – di chi non si risparmia, di chi non calcola mai la quantità di energia da spendere. Né il rischio che quello spendersi produce. Mi piace un verso di Zanzotto che, parlando di lui, dice che «era dappertutto con la sua passione di tutto». Mi piace la serietà: il fatto che in pubblico non ridesse praticamente mai – ciò che l’avrebbe reso inadatto ai social, e ciò lo rende abissalmente distante dalla fiera del ghigno, della risata permanente, a cui purtroppo contribuiscono anche gli scrittori. Mi piace l’autorevolezza, il credito guadagnato in fretta, con ostinazione; e nonostante le vessazioni, le ostilità aperte, le espulsioni. Quando pubblica Ragazzi di vita ha trentatré anni. Quando gira Accattone non ne ha compiuti quaranta. Mi piace il fatto che non perdesse tempo.
Mi piace il suo continuo sperimentare, forme e generi; il suo cercare lingue e linguaggi: il friulano delle origini per dire l’idillio disperso, il romanesco, acquisito, studiato, per dire la vita di borgata, e ancora, l’italiano aulico, l’italiano giornalistico, l’italiano illuminista, l’italiano contorto, l’italiano sciatto, l’italiano sensuoso. E la lingua del cinema: per superare i limiti della lingua italiana. Mi piace il fatto che, al contrario di quanto si dica – attualizzandolo in modo frivolo – sia al fondo inattuale. Ma l’Inattuale è spesso lo spazio abitato dagli intellettuali autentici, che non sono, come si crede, profeti. Mi piace il contraddirsi, anche davanti a ciò che non capiva, che si sforzava comunque di capire. Il tono perentorio con cui, in una “lettera luterana” a Calvino, così diverso da lui, gli domanda più volte: ma perché questo? Perché questo? Mi piace che molte sue convinzioni risultino tuttora inaccettabili per gli stessi che lo ammirano, e che fingono di dimenticarle, di non vederle, o – molto più banalmente – non le conoscono. Intanto, si scattano un selfie con la sua icona alle spalle. Mi piace che suscitasse e possa ancora suscitare anche profonda antipatia: in un racconto di Parise, intitolato proprio “Antipatia”, appare un intellettuale con una «faccia ossuta a forma di pugno» e una «voce dolcina». Non nasconde di detestarlo, di detestare, dietro quella maschera, «il Pasolini Castigatore», la coscienza della Nazione, la vittima sacrificale.
Mi piace che non vi sia nessuna lezione, nessuna eredità, nessuna concreta possibilità di imitarlo o di seguirne la strada; ed è patetico chiunque se lo proponga o se lo sia proposto. Mi piacciono anche le pagine oggettivamente brutte, imperfette, irrisolte, superflue, di un’opera che ha nella sua esuberanza, nel suo sperpero, nella sua enormità la sua forza: più nell’impressionante sequenza dei gesti, che nel gesto singolo. Mi piace, dietro tutto ciò che pure risulta sgradevole, l’irriducibile tenerezza, la capacità di sentire le cose, tutte, una per una – il rotolio dei tram, le dita che contano i soldi, le urla dei ragazzi davanti al rombo del mare, la città, in un colore eterno d’estate, e i corpi che siamo. E la sera che, «benché triste, così dolce scende / per noi viventi».
L’Espresso, 25 ottobre 2020