Quello che possiamo imparare in Africa
Ho lavorato a questo libro, “Quello che possiamo imparare in Africa” (Editori Laterza), con Dante Carraro, per raccontare l’esperienza di Medici con l’Africa Cuamm.
Non solo per dare conto del lavoro di cura e prevenzione, di sviluppo dei sistemi sanitari in 41 paesi, ma anche e soprattutto per ragionare sulla salute come bene globale, come bene comune. Forse ci siamo resi conto, a queste latitudini, solo nell’ultimo anno e mezzo di quale sia la posta in gioco.
(Poco più dell’1% dei vaccini di cui disponiamo è arrivato nel continente africano.)
Voglio raccontare di un pomeriggio che ho passato a Moroto, nel nord dell’Uganda, mentre lavoravo al libro.
Era l’inizio del 2020, l’anno che avrebbe stravolto il mondo che conoscevamo.
Sotto un tetto di paglia, un uomo si alza in piedi e racconta la sua storia. Si chiama Peter, è guarito dalla tubercolosi grazie alle cure ricevute nell’ospedale di Matany. Lo guardo, resto impressionato dai gesti – si porta di continuo le mani al petto, oppure le congiunge, in una sorta di preghiera che è un segno di gratitudine. Perdo qualche parola; non quella essenziale: healed, guarito. La ripete più volte, con uno stupore che commuove. La ripete quasi come dovesse assicurare a sé stesso che sì, è davvero guarito.
Le parole diventano insufficienti se cerco di tradurre le sensazioni, anche violente, di questo breve viaggio ugandese. Diventano retoriche se solo provo a nominare, a inventariare cose viste. Paesaggio naturale, paesaggio umano – il cielo, di un azzurro mai visto, le giovani studentesse di ostetricia che offrono il loro canto di benvenuto, la confusione di un mercato rurale passando in macchina da Amuria, il crepuscolo che scende su un villaggio nei pressi di Aber. Il Nilo, possente, incrociato nel distretto di Kiryandongo.
Sono in Karamoja, nel nord est dell’Uganda, al seguito di don Dante. Le sue giornate sono fitte di appuntamenti. Stringe mani, dialoga, analizza dati. Nei lunghi viaggi in macchina raccolgo le sue parole: pragmatiche. Non teorizza, desume da ciò che osserva. Incontriamo pazienti e medici, direttori d’ospedale, infermiere, infermieri, e gente che è guarita. O gente che prova a guarire, e aspetta, all’aperto, seduta a terra, sulla polvere rossa. Prendo appunti, mentre il dottor James, ugandese, racconta la grande sfida della piccola struttura sanitaria attivata dal Cuamm e che ora è lui a guidare – facilitare l’accesso ai servizi, informando le comunità, mobilitandole. Prendo appunti, mentre intere famiglie, o giovani donne, condividono con noi la loro esperienza: guarire, vedere qualcuno guarire, sopravvivere. Come un’occasione che non viene dal cielo, viene dalla terra, per via di mani – intanto – tese. Sapienti, e operose, perché messe nelle condizioni di operare.
La frase fatta che dice “al primo posto c’è la salute” non si è mai dimostrata tanto ingombrante quanto nel corso della crisi sanitaria internazionale. Resta vera, inoppugnabile, sul piano del privato. Suona fallace, tuttavia, su un piano pubblico: perché contraddetta, tradita, negata dai fatti, dalle inadempienze croniche, da una inattesa vulnerabilità. L’Occidente sicuro di sé si è scoperto impreparato all’emergenza: anche per la scarsa propensione a guardare dove l’emergenza è ricorrente o permanente, all’involontaria e spesso dolorosa lezione del continente africano.
Forse solo adesso – ripensando a Peter, alle sue mani giunte, al suo inchino grato – colgo appieno l’esattezza e la potenza di quella parola. In quel termine – guarito – c’è la verità del più semplice, preliminare, istintivo dei nostri desideri. Sia nell’ora in cui la avverte un’intera collettività, sia nell’ora in cui a nutrirla è un singolo essere umano, c’è la prima e l’ultima speranza del mondo, che è sempre la speranza di guarire.
17 giugno 2021
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