Di-Paolo4

Una storia quasi solo d’amore

Diario di scrittura

Prima di Google, di Wikipedia e di Yahoo Answers, a chi le facevamo le domande? L’enciclopedia Grolier che avevo in casa (qualcuno se le ricorda, le enciclopedie di carta?) forniva risposte fredde e vaghe – soprattutto su ciò che, entrando nell’adolescenza, mi stava più a cuore. Topolino e Charlie Brown qualche aiuto lo davano, ma i romanzi – stavo per scoprirlo – potevano offrire perfino di meglio. Dostoevskij non era facile, ma sul primo amore sapeva tutto; Moravia, sul sesso, ancora di più. Leggere libri era come frequentare di nascosto cattive compagnie – gente che fumava, beveva, ti rivelava segreti indicibili, rispondeva a domande che non avresti mai rivolto a nessuno, e soprattutto ne faceva a te di nuove. Strane, insolite, spiazzanti. «Ma infine, che cosa ci aveva guadagnato? Che cosa aveva riportato da questo viaggio?» chiede al lettore il narratore del Giro del mondo in ottanta giorni. Le domande fondamentali. «E presto diventerei adulto?» domanda Peter Pan alla signora Darling. O forse a sé stesso. «Possibile che anche per le persone avanti negli anni così fosse la vita – allarmante, inaspettata, sconosciuta?» si domanda Lily Briscoe verso la fine del romanzo di Virginia Woolf Al faro. Ho letto, continuo a leggere i romanzi come generatori di domande. Il più delle volte non c’è nessuna risposta. Ma il bello è proprio questo: che qualcuno chieda, anche nel buio, e che l’interrogativo resti a lampeggiare per ore; che i libri sbattano come porte, diceva Breton, di cui si è persa la chiave.

Anche osservato dalla parte di chi scrive, un romanzo può essere un modo per porre questioni che non avremmo il coraggio di porre altrove. Sono in una chiesa romana, sono entrato solo per ripararmi dal caldo, tutto è solenne, fresco, fuligginoso. Non c’è quasi nessuno. Il cigolio della massiccia porta di legno annuncia un ingresso. Mi volto: è una ragazza, è bella, indossa una maglietta bianca, ha i capelli legati. Si siede all’ultimo banco, sta lì più o meno quattro minuti, poi si fa il segno della croce e va via. Vorrei fermarla, o seguirla, chiederle qualcosa. Chi sei? Dove stai andando? Che ci facevi qui? Cos’erano di preciso quei quattro minuti? Da questa piccola visione, da questo lampo di luce dentro l’ombra di una chiesa secentesca, credo sia venuta fuori Una storia quasi solo d’amore. Volevo esporre a questo mistero un ragazzo di vent’anni, uno venuto su nel nuovo secolo, senza avere nemmeno sfiorato le categorie e le ipoteche di quello vecchio. Volevo costringerlo a trovarsi davanti una ragazza più grande, misteriosa, complicata, a esserne attratto, a sentirsi – come mai prima – impacciato, goffo, come di fronte a una cartina muta.

Salinger dice che il mondo ha bisogno di storie ragazzo-incontra-ragazza; io so solo che spesso ne ho bisogno io. E che ho provato a scriverne una, per la prima volta come se fosse l’ultima. Ho avuto in testa un incipit, all’improvviso: «Eravate bellissimi», e con quell’incipit una voce precisa. L’ho segnato in fretta su un quaderno nel cuore della notte. Era febbraio, e non prendevo sonno. Nino e Teresa li ho avuti subito davanti agli occhi, li ho visti parlare davanti a un teatro, un lunedì dopo le sei di pomeriggio. Li ho pedinati, ho atteso che tornassero a incontrarsi, lunedì dopo lunedì. E che la presenza di Teresa costringesse Nino, così poco allenato alle domande, a trovarsene di fronte una valanga. Ogni incontro fra sconosciuti somiglia a una collisione fra pianeti fuori orbita – e tutto questo fa rumore e luce. Nino, da innamorato, è tecnicamente al punto più alto della sua curiosità – e così, in quella fase, siamo tutti: disposti a rinunciare ai pregiudizi che ci fanno da armatura. Sei vegano? Non importa. Mangi carne mattina e sera? Non importa. Ti piace Casaleggio? Non fa niente. Sei scappato da casa? Hai cambiato sesso? Hai figli sparsi ai quattro angoli del pianeta? Non conta, non mi spaventa. Sei credente? Vorrei capire.

Poi magari i pregiudizi tornano, riprendono fiato, ma intanto – da innamorati – ci è sembrato di non averne bisogno, di poter capire tutto, di accettare qualunque domanda. Di essere un po’ meglio di come siamo di solito: più aperti, più liberi, meno ottusi, meno stronzi. Ma perché dura così poco? «Quasi tutte le persone sono simpatiche quando si riescono a capire» (Harper Lee, Il buio oltre la siepe): vero, ma lo sforzo lo facciamo sempre poco, sempre meno. Basta uscire per strada, guardate. Nino e Teresa, che forse si stanno innamorando, non sentono la fatica, stabiliscono quella forma di alleanza fra estranei che ha qualcosa di prodigioso. Continuano a darsi appuntamento, come Whitman nella poesia allo Sconosciuto: «Devo aspettare, perché t’incontrerò di nuovo, non ho dubbi / devo vedere come non perderti più».

Da questo libro è nata anche l’esperimento “Edizione straordinaria”.

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