«C’entrano i geni? il famoso DNA?
C’entra qualche antenato sconosciuto?
un vecchio bibliofilo il cui nome
è nascosto in una enciclopedia polverosa
che non leggerò mai
Ma no, forse è solo frutto di un caso
O di una speciale intelligenza del mondo –
che sarebbe molto noioso se tutti amassimo le stesse cose
D’altra parte, la gente seriamente appassionata è divertente da osservare
ma anche un po’ inquietante
Non c’è mai una ragione precisa,
una ragione seria
a cui ricondurre l’essere diventati,
nella vita, questo o quello
una studiosa di fisica che si occupa
di buchi neri
come affacciandosi da oblò invisibili
nello spazio
un pilota costretto a dimenticare le paure
di molti passeggeri
in volo sull’Oceano
il macellaio migliore del quartiere
l’insegnante rimpianta dagli studenti
che ha dovuto lasciare
il grafico che impagina questo libro
perché così? perché siamo questo e non altro?
A vedermi da fuori, io stesso ho qualche dubbio sul tempo che ho speso a leggere storie
ad accumulare libri
a comprarli
a farmeli prestare
a prestarli
senza riaverli indietro
(ma questo non è importante, perché trovavo – per dire – perfino eccitante di sapere un libro mio a casa di una ragazza che mi piaceva)
E a sfogliarli
a sottolinearli
a perderli
e ricomprarli
Il tempo – non quantificabile – che ho speso anche solo ad accarezzare copertine
come si accarezzano gli animali domestici»
«Scusi», dice come sul punto di alzarsi, «non sono d’accordo, non so nemmeno se sono previste domande, e la mia a dire il vero non è una domanda, è un’osservazione».
[quando è successo che le domande si sono trasformate in osservazioni?]
Nessuno gli dice di rinunciare ed è ovvio che lui non rinuncia. Rivolto al conferenziere di turno, dice che non è persuaso fino in fondo dalla tesi appena esposta. E cioè che lo Scrittore di cui si sta parlando abbia vissuto una sua stagione di sfiducia nelle parole, nel senso stesso delle parole, del fare letteratura.
«Sa perché glielo dico?». «No» scuote la testa il conferenziere, «no». «Glielo dico perché penso che uno Scrittore, se tale è, vive di una inesausta fiducia nel suo gesto, nella sua – vorrei chiamarla così, anche se so che è una parola quasi desueta – vocazione». Espone il suo teorema con la sicurezza esibita di chi esclude di poter essere smentito. E infatti nessuno lo smentisce: il conferenziere non ha voglia, è stanco, è sempre così (cerca la parola) svuotato alla fine di una conferenza, di un discorso pubblico, finisce per deprimersi, trascinandosi dopo cena in una camera d’albergo che è accogliente quanto ostile; no, ostile no, se è quattro stelle non lo è
[non sempre ai conferenzieri sono garantite le quattro stelle]
semmai indifferente. Indifferente come diventa lui a sé stesso quando si sciacqua il viso, sente gorgogliare la pipì, accende senza ottimismo la televisione, e si salva da una insostenibile apatia addormentandosi davanti a una trasmissione televisiva qualunque, o masturbandosi.
Che cosa resta del fiato che abbiamo speso per mettere in sequenza sillabe sostantivi verbi congiunzioni preposizioni a voce alta? Respiro e stille di saliva sono già disperse, svanite col pulviscolo della sala conferenze ormai chiusa, ormai al buio.
Non vale la pena farsi la domanda, nemmeno quando il conferenziere dovesse mettere in discussione la sequenza di gesti, di atti, che ha preceduto il torpore in cui finalmente molla gli argini della coscienza e sprofonda.
L’arrivo in stazione, il treno, il tempo in treno, una ragazza cerca di superare i suoi complessi parlando brusca, smargiassa a un suo coetaneo, poi per blandirlo gli chiede se vuole una galletta yogurt-e-fragola, lui fa no con la testa, la voce registrata nomina la prossima fermata. È un pomeriggio freddo e umido, sbarcando pensa che per scaldarsi ci vuole un caffè, appena un po’ lungo, e sa che se ne pentirà sentendo bruciare lo stomaco dopo neanche mezzora, nel tragitto in macchina accanto a un guidatore ragazzo che gli dice di collaborare con l’Organizzazione, e ogni tanto smessaggia tenendo una mano sola sul volante, eccetera
[non è facile chiedere a uno sconosciuto di guidare con più attenzione, con prudenza]
Comunque resta l’amaro in bocca, questo è il fatto, tanto più se la cena non è stata convincente, e come un campanello fastidioso la mattina dopo continua a suonare nella testa l’obiezione, la non-domanda, l’osservazione del signore che ha detto scusi come fosse sul punto di alzarsi.
“Svegliarsi negli anni Venti” l’ho immaginato come un corridoio spazio-temporale tra due secoli – futuristi, futurocrati, feste dell’Età del jazz e aperitivi negati, Thomas Mann e la rabbia sociale, Kafka e gli spettri di WhatsApp.
C’è una scena di un romanzo di Julian Barnes, “Il senso di una fine”, che amo molto. Un ragazzo è alla cattedra per essere interrogato.
“Allora, sentiamo Marshall. Come descriverebbe il regno di Enrico VIII?”.
Pausa, silenzio. Sollievo dei compagni di classe. Marshall tace ancora. Poi, finalmente: “Un tempo inquieto, signore”.
L’insegnante non è soddisfatto: “Le dispiacerebbe approfondire il concetto?”.
Lui, dopo avere annuito, ci pensa ancora un po’ e tira fuori la sua risposta definitiva: “Un tempo molto inquieto”.
Qui leggo un capitolo del libro a cui sono molto legato. Racconta di Monet; di quando, cento anni fa, pensò di abbandonare la pittura – e del mondo intorno.
Spesso, mentre si scrive un romanzo, viene voglia di nascondere fra le pagine qualcosa, sperando che venga scoperta:
L’ultimo romanzo di Paolo Di Paolo potrebbe provocatoriamente essere considerato un romanzo di formazione, ma di formazione nell’utero, nel quale il protagonista scopre chi è riguardando se stesso, molto indietro nel suo passato, ovvero valicando la soglia prenatale e avventurandosi nel mito delle origini nebulose e immaginarie, presupposte nella nascita di ognuno […]
Ma il romanzo è tutto proiettato sull’essere figli, perché come dice l’esergo riprendendo dalla mise en abime finale del libro “nulla ci accomuna come l’essere figli”, e bisognerebbe aggiungere alla fine della lettura “figli del caso”, “figli scangiati” avrebbe detto Pirandello nell’omonima favola, figli senza padri e senza madri se non quelli scelti o immaginati, edipicamente sognati a occhi chiusi o a occhi aperti come i personaggi dell’ultimo testo teatrale di Beckett, Cosa dove (1983), pur evocato in Lontano dagli occhi, forse come la chiave o una delle chiavi interpretative più sotterranee dell’intera vicissitudine […]
Non so se la ricordi, ma io sì, la prima volta che mi hai regalato un libro. Temevi che non ne fossi contento, e mi hai guardato: come si guarda un bambino quando si sta per deluderlo. Invece è andata che l’ho scartato – avevo capito che cosa fosse – con un entusiasmo che deve averti stupita.
È bastato poco per riconoscersi fra lettori: mi rigiravo fra le mani quel volume di grande formato, con i disegni che occupavano le pagine per intero. Raccontava gli dèi dell’Olimpo, «in pantofole»: Zeus come un padre dispotico, sovrappeso, cialtrone, Apollo come un rubacuori seriale, Ermes come un nipote magro, sbadato, sempre di fretta. Non so dove sia finito il libro – però mi è rimasto quel pomeriggio, nel piccolo soggiorno di casa tua, poca luce, tua madre minuscola, malata, l’avevo intravista su un grande letto pieno di cuscini. Era un pomeriggio di autunno, e non c’era nessun motivo per farmi un regalo. Da paziente di mio padre medico, costretto ogni tanto a trascinarci nelle sue visite a domicilio, tu ti eri affezionata al ragazzino occhialuto e a sua sorella. Mi chiedevi: ti piace leggere? Rispondevo sì, ed ero convinto. Da allora, il patto non scritto, stabilito da te, era regalarmi un libro quasi a ogni incontro, tenerlo pronto per l’occasione, oppure farmelo recapitare.
Come li avessi chiusi un minuto fa, come fosse rimasta impressa sui polpastrelli la loro forma, saprei dire tutto dei primi ricevuti da te.
La grande copertina in pelle azzurra di un’edizione per ragazzi del Giro del mondo in ottanta giorni – Phileas Fogg disegnato con un tratto che mi ricordava il libro di catechismo. E Passepartout, buffissimo, che dei luoghi, e di tutto, capiva molto più del suo distratto datore di lavoro. E quella domanda, che arrivava alla fine del libro – «Che cosa aveva riportato da questo viaggio?» – mi piaceva, mi sembrava quella fondamentale.
La Storia di Roma scritta da Montanelli, un cofanetto elegante, la costina che lo faceva somigliare a un volume antico, di pregio.
La collezione di classici della letteratura italiana: me li prendevi in edicola, uno a settimana, c’era Ariosto e c’era Pascoli, c’era Fogazzaro e c’era Verga, di cui mi incantò una novella intitolata La roba, con un tramonto largo sopra i campi e un uomo che non vuole morire e ammazza le oche gridan
Ho perso il conto, hai esagerato. A Natale, o per il mio compleanno, a giugno, sapevo che sarebbe arrivato un pacco più grande. Furono, per esempio, i quattro volumi della Ricerca del tempo perduto di Proust: compivo diciassette anni, c’erano un milione di cose diverse da fare dentro quell’età, e tuttavia immolai l’estate alla “parte di Swann”. Mi sembrò di avere sempre aspettato quel libro, e di possedere lo stesso cuore malinconico e ripetitivo del Narratore – come un organetto di Barberia scassato.
Era bello parlare, parlarne. Con un pudore quasi inscalfibile, da nipote a vice-nonna, un tono diverso da quello che usavo fra coetanei: ovvio, sì, ma valeva anche parlando di libri. Se sulle scale bianche del rettorato, all’università, qualche anno più tardi, mi sarei infiammato per pagine che a te sarebbero sembrate cervellotiche e aride – così avresti detto, e un po’ avevi ragione; se in un bar del quartiere San Lorenzo, o seduto sul letto di una studentessa fuori sede, o di un’altra i cui genitori non c’erano mai, a piazza Vescovio, se con loro facevo l’artista-da-giovane, inebriato dalle mie stesse complicazioni, con te tornavo a essere – ero ancora – il ragazzino composto che faceva bene i temi a scuola. Ritornavamo – a bordo della tua Panda, quando mi scarrozzavi verso una conferenza, la presentazione di un libro – i cultori di una letteratura casta e senza troppe ombre, pulita come quella che finisce nelle antologie scolastiche.
Quando mi avventuravo per strade diverse, era un azzardo quasi segreto. Ero esaltato, matita in mano, per pagine in cui lo stile si mostrava come un’invenzione continua, un tradimento, un esercizio a vuoto. Ero eccitato, mentre leggevo, come fossero manuali di anatomia o di educazione sessuale, romanzi di Moravia, di Philip Roth, o di Henry Miller. Nell’adolescenza, d’altra parte, bastava così poco! Oggi mi domando come sia stato possibile provare desiderio perfino per una come Lady Rowena – lei personaggio romanzesco del XII secolo, io in pieno sviluppo ormonale ottocento anni dopo – mentre leggevo Ivanhoe di Walter Scott, saltando parecchie pagine sotto il sole di luglio.
Tornavo da te come uno che deve nascondere l’odore di fumo ai propri genitori.
Quasi avessi frequentato cattive compagnie, ti nascondevo le tracce del mondo che ero riuscito a vedere. Persone lontane, diverse da me, da noi, cominciavano a raccontarmi storie insolite, inaudite, a svelarmi segreti, e rispondevano a domande che non avrei mai rivolto a te, ai miei, forse a nessuno. Mi fornivano notizie che avevano il potere di turbarmi, di farmi male e bene a un tempo, di suscitare la mia curiosità e la mia malizia. Insomma, casa mia era sempre quella, e sempre quelle le cose che si potevano dire e quelle che no. Ma poi la sera uscivo, e rientrando a notte fonda avevo addosso, al posto della scia di fumo, una serie di emozioni nuove e inattese.
Che c’entravano con me, con noi, chiacchiere di vecchi erotomani, memorie di viaggi così lontani da via Mameli 87 da sembrare impossibili, storie in cui pareva che la verità della vita fosse fatta solo di dolore, di ingiustizia, di crudeltà, di desiderio cieco, di fallimento. Ma chi stavo frequentando? Vite che non erano la mia, per tirare in ballo il titolo famoso di un libro di Emmanuel Carrère. Vite che diventavano mie.
I pregiudizi ricevevano colpi quasi mortali. Lo spazio davanti agli occhi si allargava incredibilmente, caricandosi di possibilità. Questo, è stato leggere. Questo è. Fare entrare nella propria vita molte più persone di quelle che davvero riusciamo a incontrare per strada. Intrattenersi con bambini, adolescenti, adulti, vecchi, animali, con il mistero di ciascun vivente. E con il mistero delle cose, anche. Lasciarsi toccare da ogni esperienza, lasciarla depositare in noi. Avere quasi sempre le vertigini, per come si spalanca – leggendo – non solo lo spazio, ma il tempo.
Tu, davanti a un discorso simile, avresti detto che mancava la cosa più importante. Non so nemmeno bene come tradurla: c’entra con l’idea che leggere educhi, nobiliti, o meglio, che debba educare, nobilitare, formare l’individuo, il suo “animo”.
Eterna ragazza nata all’inizio degli anni Trenta, credente, mai sposata, rifiutavi volgarità, passaggi troppo espliciti, tentazioni nichiliste. E io? Mai avuta una vocazione da maledetto, devo esserti sembrato impeccabile fino ai temi di scuola media, eccellente fino a all’esame di maturità. Già la tesi di laurea triennale – sull’immagine del corpo nella narrativa contemporanea – ti aveva lasciato qualche dubbio: scritta benissimo, mi avevi detto, ma davvero ti piacciono scrittori come quelli? La domanda non era formale, te lo chiedevi sul serio, un po’ sconcertata. Ma no, ti ho rassicurato.
E invece, per esempio, la lettura delle Particelle elementari di Michel Houellebecq, che avevo letto da poco, mi aveva entusiasmato e stordito, ricordo di avere letto l’ultima frase e di essermi alzato dalla sdraio incredulo, barcollando come ubriaco. «Questo libro è dedicato all’uomo», aveva scritto Houellebecq. Ma che cosa avresti pensato di quel deserto esistenziale, di quella rinuncia alla speranza?
Me la cavavo – se mi chiedevi cosa stessi leggendo – rispondendo «un libro che non ti piacerebbe». «Allora non lo leggo» dicevi sempre, e ci veniva da ridere. La tua vista si era fatta più debole, eri costretta a scegliere bene, dicevi, e aggiungevi che piuttosto avresti voluto il tempo per rileggere. Rileggere i libri letti da ragazza. Rileggere «i classici», ma anche certi romanzi più leggeri di una tua stagione romantica. Non capivo – io bulimico, ossessivamente curioso del nuovo e di tutto. Ci stavamo allontanando? No. Però un po’ mi dispiaceva quando dicevi che era sempre più difficile regalarmi libri, che ne avevo troppi, che li avevo letti tutti, che non capivi più i miei gusti. Allora mi invitavi a darti io il titolo di un libro da regalarmi, così che fosse impossibile sbagliare. E io facevo in modo di non deluderti.
A metà settembre del 2008, avevi letto sul giornale del suicidio di David Foster Wallace. Non l’avevi mai sentito nominare, mi hai chiesto: li hai tutti i suoi libri? Ti ho risposto che avrei voluto leggere una raccolta di racconti intitolata Oblio. Non hai aspettato un minuto, sei andata a cercarlo subito, prima nella “tua” libreria, niente, poi in altre. C’era stato un piccolo assalto. Non ti sei data pace finché non l’hai trovato. Allora sei passata da me, hai suonato il citofono, hai detto che non potevi lasciarlo nella buca delle lettere – come a volte facevi per non disturbare – perché era troppo voluminoso. Poi mi hai chiesto di promettere che, se avessi trovato un racconto bello, ma pure solo una frase, una frase che fosse bella anche per te, te l’avrei letta, o ti avrei prestato il libro. Quei racconti mi avevano ipnotizzato, rattristato, fatto pensare, costretto a pensare con la pretesa quasi tirannica di ogni pagina di Wallace. E una frase bella, una frase che ti potesse piacere, non c’entrava con i personaggi, insegnanti psicotici o bambini ustionati, e nemmeno con uno che matura l’idea di suicidarsi. C’entrava con le parole: «Le parole e il tempo cronologico creano tutti questi equivoci assoluti su quello che succede per davvero a livello elementare. Eppure al tempo stesso la lingua è tutto ciò che abbiamo per cercare di capirlo e per cercare di instaurare qualcosa di più vasto o più significativo e vero con gli altri, il che è un altro paradosso».
Mi sono dimenticato di mostrarti questa frase, mi è passato di mente. Peccato, perché credo che ti sarebbe piaciuta. Conoscendoti, avresti detto che forse si poteva dire in modo anche più semplice, ma ci saremmo trovati d’accordo sul senso. Non era stata la passione per le parole a tendere il filo di questa strana amicizia?
Di entrambi, nati a distanza di mezzo secolo l’una dall’altro, si potrebbe scrivere una seconda biografia. Della prima, per quanto riguarda te, so poco, ti ho fatto poche domande; della seconda – una biografia di lettrice – qualcosa in più: i libri che hai evocato, ricordato, che mi hai prestato, o fotocopiato; i libri che, fin quando saranno anche di carta, ingombrano le stanze e le case di chi li accumula e li conserva, componendo uno strano museo personale – la storia del nostro avere pensato, sentito, capito.
Sarebbe divertente quantificare le ore spese dietro e dentro ai libri, anche per capire come se la battono con quelle impiegate a fare tutto il resto.
Dei ventisette anni passati dal giorno in cui sono diventato lettore, da quando ho appreso questa innaturale facoltà che pesci, cani e giraffe non conoscono, che è solo di noi umani, posso dire che raramente mi è accaduto di non avere un libro sottomano. In macchina, seduto sul sedile posteriore, nelle attese dall’oculista, finché non mi mettevano le gocce e il mondo veniva cancellato dalla nebbia, o dal dentista; nella borsa della palestra del basket o del nuoto, per quel poco che ho avuto di costanza nello sport; nella borsa del mare, e nei viaggi, in tutti, uno per uno, sempre c’era con me più di un libro.
Così, se non so svelare il mistero da cui questa confidenza con carta e inchiostro origina, so che ha determinato una mole impressionante di emozioni, scoperte, incontri. Anche relazioni, anche scelte. Al punto da non riuscire a immaginare come sarei, chi sarei, se nella mia vita non ci fossero stati e non ci fossero i libri. Temo che sarei proprio un altro: né peggiore, né migliore, un altro e basta. Un altro che non sono io. E tu – sono sicuro – non saresti stata tu.
Quando Henry Miller sostiene che gli incontri con i libri siano da considerare alla stessa stregua degli incontri con altri fenomeni della vita e del pensiero, non li sta sottovalutando. Al contrario: tutti gli incontri sono connessi tra loro, dice, «non sono isolati. In questo senso, e in questo senso soltanto, i libri sono parte della vita quanto gli alberi, le stelle o il letame». Sono parte della vita. Lui, arrivato a quasi sessant’anni, si guarda intorno e decide di fare un mucchietto dei libri che per lui sono stati davvero essenziali. Non sono tanti. E d’altra parte, non si tratta di un canone estetico, intellettuale, ma di un canone affettivo.
Ho provato a comporre il mio, ed è provvisorio: ventisette libri, ventisette come gli anni, a oggi, della mia vita da lettore. Dai sette ai trentaquattro che ho compiuto. Certo, i titoli potrebbero essere il doppio, il triplo, forse il quadruplo. Ma ho scelto, ho dovuto scegliere. Non è stato facile: il solito gioco della torre. Delitto e castigo o L’idiota? Il primo. Anna Karenina o Guerra e pace? Nessuno dei due. La morte di Ivan Il’ic. Mi sono fidato dell’intensità dell’emozione: i picchi in alto di un lungo elettrocardiogramma letterario. Mi sono accorto che da ciascuna di queste storie ho imparato qualcosa, ma non sempre nel senso che intendevi tu.
Talvolta, anzi molto spesso, i romanzi mi offrivano “istruzioni per l’uso” sbagliate, a rovescio, impraticabili. Vuoi innamorarti meglio della persona sbagliata? Leggi Le notti bianche di Dostoevskij. O Le avventure della ragazza cattiva di Mario Vargas Llosa. E se vuoi “abolire” i lunedì dalle tue settimane, leggi Le avventure di Tom Sawyer, che sogna un calendario fatto tutto di domeniche. Vuoi imparare a non crescere troppo? Leggi Peter Pan! Peccato che poi si cresca lo stesso, e che i lunedì arrivino sempre e comunque. Però in un romanzo, nei romanzi, resta sempre aperto il campo della possibilità. È possibile abolire i lunedì. Immaginare, sempre. Sentir battere il cuore e inventarsi il sesso. Cercare un posto sicuro, e non invecchiare male. Trovare l’ultima parola.
Se un romanzo funziona, funziona come un viaggio. Un viaggio ci rende migliori o peggiori? Nessuna delle due cose. Diversi, di sicuro, da quando eravamo partiti. Se è davvero un viaggio, è possibile rispondere alla domanda del Giro del mondo in ottanta giorni: «Che cosa aveva riportato?».
A volte, da un libro, riporti con te anche solo una frase. Un’intuizione. Una cosa che ignoravi. Un’altra che ignoravi di ignorare. A volte anche solo una visione, il gesto di qualcuno che si aggiusta un cappello, o sta seduto e aspetta. Altre volte una storia che somiglia alla tua. Una storia che avresti voluto somigliasse alla tua. Una storia che ha ancora il tempo di somigliare alla tua. A volte un sentimento che non riuscivi a tradurre in parole. Altre volte solo una stretta al cuore, un fastidio, un po’ di noia, uno sbadiglio. Ma tutto va bene, purché non ritorni a mani vuote.
Da ciascuno dei ventisette romanzi che qui ho messo in fila, ho riportato qualcosa che non ho ancora perso. Alcuni li hai amati e letti anche tu, altri non li conoscevi, altri ancora sono fra quelli che non ti piacerebbero. Ma mi pare, in ogni caso, che avrei dovuto scrivere questo libro prima, in tempo perché tu lo leggessi, in tempo per portartelo in regalo in ospedale, l’ultima volta che ti ho vista.
Era un pomeriggio di fine dicembre – sereno e quasi tiepido, mi aveva fatto in venire in mente, guarda caso, l’inizio del Piacere di d’Annunzio, con l’anno che muore «assai dolcemente». Non volevo arrivare a mani vuote, ti ho portato una copia di un libro pubblicato da questo stesso editore; dentro c’è un mio testo che discute ironicamente la convinzione che leggere ci renda migliori. Dicevo tra l’altro che «il piacere della lettura», in senso astratto, forse non esiste. Esistono però il piacere, il divertimento, la commozione, la tristezza, il fastidio, l’indignazione, la sorpresa, suscitati di volta in volta dai singoli libri. Mi hai scritto un sms, uno degli ultimi: tu che contesti il piacere della lettura, non sembri tu. Era una provocazione, ti ho risposto.
Se ho scritto questo libro, è stato anche per aggiungere tutto il resto, tutto quello che mancava in quella risposta frettolosa. E confermarti che questo strano gesto, questo gesto inoffensivo, e concentrato, ormai secolare di mettersi a leggere qualcosa come un romanzo
non rende più intelligenti
può fare male
non allunga la vita
non c’entra con la cultura, non direttamente
e però anche che
aiuta a non smettere mai di farsi domande
alimenta l’inquietudine che ci tiene vivi
permette di non vivere solo il proprio tempo e la propria storia
offre la possibilità di non essere solo sé stessi
rende più intenso il vissuto, e forse più misterioso il vivibile
[ti lascia sempre molte caselle vuote da riempire]
Certo, è difficile immaginare che tu possa leggere queste pagine. Però c’è una cosa che mi consola: ed è proprio il fatto di averti portato un libro, quel giorno. Forse non era quello giusto, ma sei stata contenta: mi portano solo libri pesanti, hai detto. Ti riferivi alla mole. Mi cadono dalle mani, per fortuna me ne hai portato uno più piccolo e leggero. Ti ho salutata come ci si saluta sicuri di rivedersi. E lì per lì non ci ho fatto caso. Ci sto pensando adesso: è stato il primo e l’ultimo gesto che abbiamo fatto insieme – scartare un libro regalato.
Prima di Google, di Wikipedia e di Yahoo Answers, a chi le facevamo le domande? L’enciclopedia Grolier che avevo in casa (qualcuno se le ricorda, le enciclopedie di carta?) forniva risposte fredde e vaghe – soprattutto su ciò che, entrando nell’adolescenza, mi stava più a cuore. Topolino e Charlie Brown qualche aiuto lo davano, ma i romanzi – stavo per scoprirlo – potevano offrire perfino di meglio. Dostoevskij non era facile, ma sul primo amore sapeva tutto; Moravia, sul sesso, ancora di più. Leggere libri era come frequentare di nascosto cattive compagnie – gente che fumava, beveva, ti rivelava segreti indicibili, rispondeva a domande che non avresti mai rivolto a nessuno, e soprattutto ne faceva a te di nuove. Strane, insolite, spiazzanti. «Ma infine, che cosa ci aveva guadagnato? Che cosa aveva riportato da questo viaggio?» chiede al lettore il narratore del Giro del mondo in ottanta giorni. Le domande fondamentali. «E presto diventerei adulto?» domanda Peter Pan alla signora Darling. O forse a sé stesso. «Possibile che anche per le persone avanti negli anni così fosse la vita – allarmante, inaspettata, sconosciuta?» si domanda Lily Briscoe verso la fine del romanzo di Virginia Woolf Al faro. Ho letto, continuo a leggere i romanzi come generatori di domande. Il più delle volte non c’è nessuna risposta. Ma il bello è proprio questo: che qualcuno chieda, anche nel buio, e che l’interrogativo resti a lampeggiare per ore; che i libri sbattano come porte, diceva Breton, di cui si è persa la chiave.
Anche osservato dalla parte di chi scrive, un romanzo può essere un modo per porre questioni che non avremmo il coraggio di porre altrove. Sono in una chiesa romana, sono entrato solo per ripararmi dal caldo, tutto è solenne, fresco, fuligginoso. Non c’è quasi nessuno. Il cigolio della massiccia porta di legno annuncia un ingresso. Mi volto: è una ragazza, è bella, indossa una maglietta bianca, ha i capelli legati. Si siede all’ultimo banco, sta lì più o meno quattro minuti, poi si fa il segno della croce e va via. Vorrei fermarla, o seguirla, chiederle qualcosa. Chi sei? Dove stai andando? Che ci facevi qui? Cos’erano di preciso quei quattro minuti? Da questa piccola visione, da questo lampo di luce dentro l’ombra di una chiesa secentesca, credo sia venuta fuori Una storia quasi solo d’amore. Volevo esporre a questo mistero un ragazzo di vent’anni, uno venuto su nel nuovo secolo, senza avere nemmeno sfiorato le categorie e le ipoteche di quello vecchio. Volevo costringerlo a trovarsi davanti una ragazza più grande, misteriosa, complicata, a esserne attratto, a sentirsi – come mai prima – impacciato, goffo, come di fronte a una cartina muta.
Salinger dice che il mondo ha bisogno di storie ragazzo-incontra-ragazza; io so solo che spesso ne ho bisogno io. E che ho provato a scriverne una, per la prima volta come se fosse l’ultima. Ho avuto in testa un incipit, all’improvviso: «Eravate bellissimi», e con quell’incipit una voce precisa. L’ho segnato in fretta su un quaderno nel cuore della notte. Era febbraio, e non prendevo sonno. Nino e Teresa li ho avuti subito davanti agli occhi, li ho visti parlare davanti a un teatro, un lunedì dopo le sei di pomeriggio. Li ho pedinati, ho atteso che tornassero a incontrarsi, lunedì dopo lunedì. E che la presenza di Teresa costringesse Nino, così poco allenato alle domande, a trovarsene di fronte una valanga. Ogni incontro fra sconosciuti somiglia a una collisione fra pianeti fuori orbita – e tutto questo fa rumore e luce. Nino, da innamorato, è tecnicamente al punto più alto della sua curiosità – e così, in quella fase, siamo tutti: disposti a rinunciare ai pregiudizi che ci fanno da armatura. Sei vegano? Non importa. Mangi carne mattina e sera? Non importa. Ti piace Casaleggio? Non fa niente. Sei scappato da casa? Hai cambiato sesso? Hai figli sparsi ai quattro angoli del pianeta? Non conta, non mi spaventa. Sei credente? Vorrei capire.
Poi magari i pregiudizi tornano, riprendono fiato, ma intanto – da innamorati – ci è sembrato di non averne bisogno, di poter capire tutto, di accettare qualunque domanda. Di essere un po’ meglio di come siamo di solito: più aperti, più liberi, meno ottusi, meno stronzi. Ma perché dura così poco? «Quasi tutte le persone sono simpatiche quando si riescono a capire» (Harper Lee, Il buio oltre la siepe): vero, ma lo sforzo lo facciamo sempre poco, sempre meno. Basta uscire per strada, guardate. Nino e Teresa, che forse si stanno innamorando, non sentono la fatica, stabiliscono quella forma di alleanza fra estranei che ha qualcosa di prodigioso. Continuano a darsi appuntamento, come Whitman nella poesia allo Sconosciuto: «Devo aspettare, perché t’incontrerò di nuovo, non ho dubbi / devo vedere come non perderti più».
Che cosa resta di un romanzo che abbiamo scritto? Un file salvato nel computer, sì, e molti appunti: quaderni fitti di idee che avremmo voluto sviluppare. Molte le abbiamo dimenticate, perse di vista, tradite. Restano frasi su post-it gialli che sembrano indicazioni geografiche a vuoto. «Esuli di Joyce va in scena la sera del 14 febbraio 1926». E allora? Allora un romanzo, qualunque romanzo, è sempre inferiore all’idea astratta che ne avevamo in partenza. Una volta pubblicato, come sapeva Henry James, si è assaliti dalla tentazione di sacrificare la prima edizione e cominciare dalla seconda: «Ah, ripartire di nuovo, avere un’occasione migliore!». Inutile quindi passarsi fra le mani queste carte cariche di promesse non mantenute, di voci bibliografiche tralasciate, di immagini buttate via: un patrimonio dilapidato. Eppure a volte, di un romanzo, resta un piccolo museo. Orhan Pamuk l’ha costruito a posteriori, a Istanbul, per una storia d’amore: Il museo dell’innocenza. Una folla di fotografie, bottiglie, sigarette, pettini, spille, orologi diventa il deposito materiale del sentimento (romanzesco) che ha legato Kemal e Füsun: quasi fossero non personaggi ma persone vere, che vivendo hanno lasciato la loro scia di oggetti.
Scrivendo Mandami tanta vita, sulle tracce di una vita inabissata nell’inverno del 1926, ho – come accade a chiunque lavori sul passato – accumulato documenti, letto libri, fatto la fila al banco delle fotocopie in biblioteca. Poi però, uscito di lì, mi dicevo: non basta. E mi ostinavo a cercare ancora: piccole librerie, bancarelle dell’usato, robivecchi, eBay – pur di sentire tra le mani l’aria di quel tempo. È una pretesa assurda, votata al fallimento, ma non ho smesso per un attimo di alimentarla, con il gusto del collezionista dilettante. Soddisfatto per un niente: la copia in buono stato della «Domenica del Corriere» uscita il 14 febbraio 1926, due giorni prima che la trama del mio romanzo si concluda. A cosa è servita, ai fini della narrazione? A nulla, ma volete mettere il piacere di avere davanti agli occhi le tavole di Beltrame? Sulla prima pagina, un uomo finito sotto un treno nel lucchese: «tutti i carri del convoglio gli passarono sopra lasciandolo tuttavia incolume». E poi le poesie sul carnevale, le novità per le acconciature («modelli parigini per la sera»), le pubblicità (il brodo Arrigoni per una minestra «appetitosa»), i consigli per sbarazzarsi di tutti i mali ai piedi.
Mi emoziona sapere che queste pagine hanno preso la luce di una domenica mattina di quasi novant’anni fa. L’idea che qualcuno le abbia sfogliate, lette davanti a un caffè. Così il passato sembra sul punto di svegliarsi e tornare, diventa uno spazio ancora abitabile. La letteratura offre questa illusione, ed è la stessa di quella cameriera che, nella Rosa purpurea del Cairo di Allen, sogna di vivere in un film in bianco e nero, o di quello scrittore in crisi che a mezzanotte incontra Hemingway e Fitzgerald, in Midnight in Paris. Gli oggetti, le cartoline, i vecchi giornali sono stati per me come quel rintocco d’orologio, come la ricetta di un incantesimo. Come la macchina del tempo. A stesura ultimata, avevo intorno un piccolo, inutile, sorprendente museo involontario. Quando avevo acquistato la riproduzione di timbri postali degli anni Venti? E quando mi ero messo in cerca di vecchie, anonime fotografie, di locandine cinematografiche, di pubblicità di grammofoni? «Possedere uno di questi strumenti significa avere tutti i più grandi artisti da Tamagno alla Patti, da Caruso a Titta Ruffo…». Grammofoni in quercia, in mogano, cinquanta modelli di strumenti da lire 500 a lire 8600, a molla o elettrici. Stampe della vecchia Torino: il manifesto dell’esposizione del 1898, con un pallone aerostatico che sale sopra la città; piazza Castello con l’insegna di un Grand Hotel, signore a passeggio e un barroccio al centro della scena; il Teatro Balbo e un capannello di gentiluomini all’ingresso. Figurine scure, indistinguibili, vite di uomini non illustri perse nel tempo. Che fine avete fatto? Possibile – come si chiedeva Benigni nella Voce della luna – che non si sappia più niente di voi?
Ho acquistato perfino fascicoli, neanche troppo economici, di una rivista illustrata americana, «Mid-Week Pictorial», anno 1925. Gossip dell’epoca, nuotatrici, principesse, corse di cavalli, acrobazie di cani. Fotografie grigioblu su una carta che si sfarina fra le mani; cruciverba a premi: con il più facile, si vincono quindici dollari. Il numero di gennaio-febbraio 1926 di «Esercito e Nazione. Rivista per l’ufficiale italiano» presenta la riproduzione di un testo autografo del Primo Ministro d’Italia Benito Mussolini sui progetti militari. L’articolo «Il Marocco nelle sue caratteristiche geografico-militari» offre anche una cartina a tre colori che segnala i limiti dell’occupazione francese e spagnola al 1° aprile 1925. Meno suggestiva una dotta analisi sul tema «Carri armati contro reticolati». Adorabile invece un numero del «Giornalino della Domenica» diretto da Vamba, con una fiaba giapponese illustrata e il Cantuccino degli enigmisti di Fra Bombarda. Mi dispiace avere trascurato, su un numero del «Mondo» dell’estate 1917, una riflessione accigliata sulle bagnanti che «si abbandonano al cosiddetto bacio dell’onda solo indossando corpetto e mutandine» e un velenoso ritratto di Amalia Guglielminetti firmato Pitigrilli.
Sono tornato anche più indietro, là dove il mio romanzo non arriva: alla settimana in cui a Torino nasceva Piero Gobetti, il protagonista di Mandami tanta vita, giugno 1901. Sull’«Illustrazione italiana» si annuncia, per il prossimo numero, uno splendido articolo di De Amicis sui lavoratori del mare nel porto di Genova. Peccato non averlo. A Roma è stato aperto da poco il nuovo Ponte Cavour; un disegno dal vero mostra senatori e deputati in visita al Re per rallegrarsi della nascita della Principessa Iolanda. Sulla copertina, fra le tante pubblicità, anche quella del Liquore Strega, ditta Alberti, casa fornitrice di Sua Maestà. Non ci avevo fatto caso.
Il mio piccolo museo involontario è tutto in una scatola di cartone. Da custode e unico visitatore, ne riconosco la stralunata e sentimentale inutilità. Eppure queste tracce tanto fragili mi sembra di averle messe in salvo, riportate a casa da un viaggio, ma nel tempo. Non è sempre questo, lo spirito del collezionista? Per tutti i giorni che ho speso a scrivere il romanzo, il calendario diceva contemporaneamente 2012 e 1926. Ero anche lì, a chiamare nomi, a sentire freddo, a mettere il naso in affari non miei. Ho sentito la mia vita dilatarsi all’indietro; rompere le leggi – almeno quelle apparenti – della fisica. Mi è sembrato lecito aspettare ciò che non può tornare, e anche chi non può tornare. Mi sono ricordato che soprattutto per questo, amo leggere romanzi.
Quel che resta del Paese di “colpo grosso”. Il romanzo italiano sui vent’anni del Cavaliere
Di Antonio Tabucchi, La Repubblica, 7 settembre 2011
“Dove eravate tutti” di Paolo Di Paolo ha come protagonista uno studente universitario alle prese con l’impossibile stesura di una tesi sul berlusconismo.
L’autore, nato nel 1983, ha già al suo attivo una folta produzione narrativa e di saggi.
Un affresco composto di notizie di giornale, foto, lacerti di realtà della nostra epoca.
Mentre sento che in Italia, paese dell’eterno ritorno, si è ricominciato a piangere sull’imminente “morte del romanzo” che mezzo secolo fa costituì il tormentone della neo-avanguardia di allora, vedo con piacere che i giovani (e anche i meno giovani) scrittori italiani continuano a scrivere romanzi. O qualcosa che appartiene al genere che per convenzione definiamo “romanzo” e che naturalmente non ha niente a che vedere con la creatura di cui si piange la futura scomparsa, essendo costei defunta da tempo per cause naturali. Una modesta creatura il cui avvincente incipit (parlo per metafora) suonava all’incirca così: «La Marchesa uscì di casa alle cinque in punto». Anche se il feuilleton di tipo ottocentesco basato sull’uscita della Marchesa continua ad occupare i banchi delle librerie e le sdraio degli stabilimenti balneari (ma questa è una legge dell’industria del consumo, che per fare un solo prodotto di qualità deve produrre almeno una tonnellata di scorie), coloro che oggi scrivono buona letteratura sanno che la Marchesa che uscì alle cinque non ha più fatto ritorno, ed è inutile stare ad aspettarla. Ed è curioso notare come nonostante lo stantio ambiente culturale italiano, o forse proprio in reazione ad esso, la giovane letteratura italiana (intendo della generazione dei trentenni e dei quarantenni) sia una delle più nuove e vivaci d’Europa; una letteratura che se l’avessero i francesi e gli inglesi riuscirebbero a imporla nel mondo con la forza di una esportabilità linguistica che noi non abbiamo. Qualche tempo fa l’italiano era almeno una lingua di cultura; ora, dopo la sistematica distruzione della cultura, non è più neppure questo. E altro che signore marchese che uscirono di casa alle cinque: qui si tratta di un paese intero che vent’anni fa s’imbarcò su una nave da crociera verso lidi ignoti, facendo perdere le proprie tracce ai radar dei “politologi” e degli “statistici” che ancora la cercano invano.
‹‹Mi perdoni se entro nel campo personalissimo delle mie visioni, se non addirittura delle mie allucinazioni. Mi creda, mi è sembrato di averla davanti agli occhi: una nave da crociera. Il pensiero mi ha accompagnato fino a notte e non mi ha ancora lasciato: l’Italia, per vent’anni, è stata una nave da crociera. Non le pare? Con i campi da golf, le balere, le discoteche, le piscine, il cinema, il piano-bar. La vacanza dev’essere cominciata con una cosa che, per età, non riesco a ricordare per memoria diretta. Ne hanno mandati in onda alcuni passaggi l’altra sera. Si chiamava Colpo grosso, lo trasmettevano su Italia 7, gestione Fininvest››.
Con questa citazione, che è a p. 136, credo di aver toccato il cuore del romanzo di Paolo Di Paolo, Dove eravate tutti, appena uscito presso l’editore Feltrinelli (pagg. 224, euro 15). Paolo Di Paolo è un giovanissimo (nato nel 1983), ma ha già al suo attivo una produzione saggistica e narrativa insolitamente folta per la sua età. E se non posso definire questo romanzo un esordio, esso è certo un felice ingresso in una narrativa impegnativa e matura, anche in virtù del complesso disegno con cui è costruito, con una storia che fa da sinopia a un affresco composto di notizie di giornale, di fotografie, di lacerti di realtà politico-sociale, di mitemi attuali, di idioletti epocali, di ciò che costituisce non soltanto il sapore ma lo Zeitgeist dell’epoca nostra.
L’autore appartiene a quella generazione che dall’infanzia a oggi in Italia non ha conosciuto altro che il sistema tolemaico di quell’imprenditore brianzolo proveniente da un¿associazione eversiva che la stampa italiana, con un anglicismo fuori luogo definisce “il premier”. E che ha come “seconders” (a questo punto ci sta bene) boss mafiosi, corruttori di giudici, sub-agenti dei servizi segreti, giornalisti al soldo, sicari, cardinali, magnaccia e cocainomani. Un tipetto che di quella nave da crociera, dove dapprima faceva l’intrattenitore, è divenuto il capitano.
‹‹Saliti sulla nave da crociera, abbiamo preso il largo. Diretti dove? Era impossibile capirlo. Ma siamo rimasti a bordo per vent’anni. Le vacanze erano finite, veniva da piangere a tutti, come in una pubblicità. Però qualcuno deve aver detto che si poteva restare. Si poteva non scendere più. Lui avrebbe continuato a intrattenere, a sorridere, a cantare. Un giorno, quando sembrava che tutto sarebbe durato così per sempre, il Capo sarebbe sceso›› (p. 137).
Ecco per dove era partita la nave da crociera su cui si era imbarcata l’Italia: verso presunte ‹‹donne di sogno, banane e lamponi›› che l’intrattenitore, Joker di un fumetto scadente, aveva promesso a tutti, ma proprio a tutti, firmando un “contratto” televisivo seduto a una scrivania di ciliegio di fronte a un presentatore che fingeva di essere il notaio. Il ventennio berlusconiano, mascherato di pinzilacchere televisive, di bandane in ville cafone, di dittatori russi che venivano dall’amico in Sardegna con un incrociatore militare, di dittatori libici che venivano dall’amico a Roma con le loro amazzoni, di partouzes con minorenni – se tutto questo è sembrato uno spettacolo di circo o un brutto sogno, in realtà è successo davvero: è stata un’epoca truce e funebre che ha scavato gallerie oscure nelle coscienze degli italiani. Ma il romanzo di Paolo Di Paolo non è tanto un romanzo sul regime di Berlusconi, quanto un romanzo sulla fine di un regime, sulla malinconia che lascia nell’animo di chi l’ha vissuto, sulla penombra (o oscurità) che abbiamo attraversato, sul desolato paesaggio del day after.
‹‹L’aria era cambiata. Sulla nave da crociera, le luci erano rimaste accese. E attivi i campi da golf, le balere, le discoteche, le piscine, il cinema, il piano-bar. Ma c’era come un senso di smarrimento. Un’ansia strana si sarebbe comunicata di passeggero in passeggero. L’equipaggio non era in grado di fornire alcuna indicazione. Le luci restavano accese, notte dopo notte. Ma i campi da golf, le balere, le discoteche, le piscine, il cinema, il piano-bar sembravano più tristi e cominciavano a svuotarsi. Le feste c’erano ancora, ma come svogliate. A muoversi – in modo scomposto e con le camicie sudate e le pance e i sorrisi un po’ ebeti – erano ormai quasi solo alcuni vecchi amici del Capo. I passeggeri, loro cominciavano ad annoiarsi›› (p. 137).
Ma il romanzo non è solo questo, ha anche una sua storia amaramente divertente che lo fa leggere con piacere, e che ovviamente non riassumo. E il cui filo conduttore è un fait divers, le disavventure di un insegnante di un liceo romano al primo anno di pensione, il povero professor Tramontana, che perde letteralmente la tramontana e risolve di vendicarsi dagli sberleffi subiti da un allievo che gliene ha fatte di tutti i colori investendolo con l’automobile. È un romanzo che potrebbe sembrare minimalista ma che poi non lo è, che potrebbe sembrare di formazione ma che poi non lo è, che potrebbe sembrare autoreferenziale e che poi non lo è. Il protagonista, il Tramontana figlio, per il quale scatta un’immediata simpatia, è una specie di Giovane Holden all’incontrario, sempre smanioso di essere amato, che vorrebbe dare ordine a un mondo che ordine non ha. C’è poi un’affollata solitudine, ci sono dei genitori ai quali sono state sottratte le categorie del mondo in cui vivevano prima e che ora vivono in una dimensione parallela, una sorta di “Stringa”. C’è un repertorio dello stupidario collettivo ormai inter-generazionale, perché il Nulla in cui tutti si trovano a vivere non è decifrabile da nessuno, e ognuno a suo modo lo vive alla Bouvard e Pécuchet, limitandosi a sillabarlo come se doppiassero la televisione. Il giovane Tramontana vorrebbe concludere i suoi studi universitari con una tesi in Storia moderna sul berlusconismo, ma il cattedratico nicchia e lo spedisce dall’Assistente. E l’Assistente (così chiamato in modo categoriale) a sua volta si tira indietro perché si è candidato nelle liste del Partito democratico e una tesi del genere gli pare controproducente per la sua carriera politica.
Ma in fondo non è questo il vero motivo della tesi mancata. La verità è che il berlusconismo è un “vuoto”, un buco nero, e sul vuoto non si può scrivere una tesi: esso non è interpretabile, sfugge all’esegesi. Dove eravate tutti (senza il punto interrogativo, come in Cosa cambia di Roberto Ferrucci) è la tesi sul vuoto di un ventennio che il figlio del professor Tramontana non è riuscito a scrivere per l’esame universitario. Ma che Paolo Di Paolo è riuscito a raccontare in un romanzo rendendolo significante e tangibile con il talento di un narratore di razza.
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