Allora, tieni presente che le chiavi le trovi nel panificio dell’egiziano. Tanto perché tu non faccia pasticci. Entra, lo vedi subito, sta all’angolo, cioè fa angolo con due strade, come si dice? un incrocio, insomma tu entra e chiedi di me. Cioè, di’ che sei lì per conto mio, e se tutto va come deve, l’egiziano – alzando gli occhi al cielo, o guardandoti comunque senza alcuna simpatia – ti lascerà le chiavi. A quel punto, guardando il panificio, vai a destra e scendi per quella strada, che si chiama rue des Petites Maries, considera che il portone è un po’ duro, non ti scoraggiare, insisti, sei un uomo no? Entri, ti trovi sulla destra subito la cucina, sopra c’è la camera, la scala è un po’ stretta e ripida, c’è sempre qualcuno che si lamenta, ma ritengo che sia un po’ sciocco lamentarsi per così poco. Cioè, voglio dire, per undici gradini stretti, o dodici che siano, c’è di peggio. La camera accanto alla tua è occupata, ma è una coppia tranquilla, gente che tutt’al più fa l’amore di pomeriggio, ho la sensazione che abbiano una loro precisa routine: che escono al mattino, fanno colazione fuori – d’altra parte gli ho indicato una meravigliosa boulangerie, benché anche l’egiziano, devo dire, fa ottimi dolci –, se la spassano per la città – pare siano appassionati d’arte contemporanea, pranzano da qualche parte e poi rientrano come fanno certe coppie più mature per riposare un po’, ma loro non riposano, a quanto deduco, hanno un appuntamento fisso con i loro corpi, il che potrebbe essere segno di buona salute e di giovinezza, o forse del fatto che stanno provando ad avere un bambino, ma mi rendo conto che questi sono affari loro. Lo dicevo perché hanno la stanza già da una settimana, ne hanno ancora un’altra e c’è chi si è lamentato, cosa che ho trovato francamente eccessiva. A dire il vero, non è stata una lamentela, più che una lamentela, una considerazione, del tipo: poi quei due ragazzi della stanza accanto ci danno dentro eh. Che è una frase in cui non capisci se c’è più tenerezza per i loro sensi surriscaldati o più invidia. Non importa. Lo dicevo per completezza di informazioni. Poi, suppongo che tu non sia né intenerito né invidioso, e che abbia altro da fare, o che trovi i gemiti di due giovani che fanno l’amore gradevoli – come un cinguettio che arriva da un albero o, che ne so, il vento della sera nelle città portuali come questa: arriva come da una porta che qualcuno ha spalancato all’improvviso, e cambia il colore delle cose, lo rende più tenue e vagamente più malinconico. A proposito di meteorologia, che è una delle mie passioni principali, principale dopo il cibo – ma si tratta proprio di tirare una riga: il cibo, e sotto, ma molto sotto, tutto il resto, ecco, dicevo, a proposito di meteorologia, qui il vento va considerato con una certa attenzione, per esempio se intendi fare una di quelle escursioni vagamente atletiche che si fanno alle Calanques, se c’è troppo vento non se ne parla; e a meno che tu non sia interessato al surf, è l’unica ragione per cui tu debba interessarti alla questione. Ma mi stavo concentrando sulla meteorologia, al di là dei miei specifici interessi, in virtù del fatto che non sei stato salutato da una bella giornata, cosa – la giornata nuvolosa – che a Marsiglia di per sé è un’eccezione, e comunque non un’eccezione che mi piace occorra davanti a un nuovo arrivato. Quando il rischio di fidarsi della prima impressione può portare seriamente fuori strada. Non registro con fierezza questa imprecisione del cielo nel giorno del tuo arrivo, questa lente sporca dietro cui hai guardato Marsiglia, arrivando al porto, come ingiallita o ingrigita, perché si è trattato di una colorazione simile a quella che assumono le pagine di certi libri in un punto preciso a eguale distanza fra l’essere nuovi, cosa che non sono più, e l’essere davvero vecchi, cosa che non sono ancora. Hai presente? Ecco. Marsiglia ti si è mostrata con quel colore lì, che pure in qualche modo è suo, di chi mai invecchia e pure non è più giovane, ma doveva restare nascosto, intuibile ma non esplicito. Il colore più netto, squillante è stato quello di un ragazzino nero che giocava a calcio con una t-shirt giallo fosforescente, proprio a un passo da due vecchietti – uno con la camicia a quadri infilata nei pantaloni, l’altro con la maglietta a righe fuori dai pantaloni – che stavano animatamente discutendo di giocatori che magari saranno sostituiti, o per meglio dire caparbiamente marcati stretti, fra nemmeno dieci anni, dal ragazzino nero che giocava a calcio con la sua maglia fosforescente. Non farti ingannare dall’aria dimessa di quei vecchietti, non farti ingannare da niente: perché se c’è una cosa che Marsiglia sa fare bene è proprio questa – ingannare. Come ti inganna l’aria da galeone maestoso di uno stupido yacht ormeggiato. O come ti inganna lo struggimento a cui non sai dare un nome alle 19.51 di un giovedì di agosto. Ma bisogna darglielo, poi? chi ne ha bisogno? E come ti ha ingannato, per arrivare al punto, la fame, a ondate, da stamattina: da quando sei entrato nel panificio dell’egiziano per recuperare le chiavi, ma il suo sguardo per niente simpatico ti ha inibito; e poi ancora, quando sei entrato in casa, vedendo un barattolo di marmellata sul tavolo, e più tardi, lasciandoti ispirare solo dal solo nome bouillabaisse, che suona così squinternato, labiale e fricativo, una specie di tamburo della gastronomia locale, di cui è meglio diffidare finché non sia il momento giusto. Hai placato il placabile con un croissant troppo unto e dopo mezzogiorno con una baguette farcita di burro e pasta d’acciughe, invitante ma grosso modo prevedibile, ti ha fatto salire una sete pomeridiana persistente, e nemmeno il caffè ha cancellato il crepitio del sale sotto la tua lingua. Sei in tempo per azzerare tutto a cena, l’indirizzo è chiaro, rue des Trois Rois, puoi arrivarci con calma, questa non è Francia, o non pienamente, questo è sud, prenditela comoda, e goditi il chiacchiericcio fitto delle sere estive, questa specie di frenesia da fermi, questo luccichio di denti giovani dietro i calici col vino ancora ghiacciato, le cartine per tabacco trinciato hanno la stessa consistenza delle lanterne cinesi, in questo tempo che pare sospeso e che fai bene a sospendere, perché è utile sprofondarci dentro, sederti a un angolo dello spiazzo che si apre appena dietro la strada che a breve imbocchi – e non sapere più quanti anni hai. Nemmeno ti tocca l’aria stranita dei fidanzati che cercano un posto economico dove fermarsi – lui più sciolto, lei nervosa per le sorti del budget residuo, finiranno per non parlarsi a tavola, o per litigare più tardi, prendendo il via da quelle frasi che iniziano male, con se mi avessi dato retta. E non ti tocca il cipiglio un po’ stronzo dei viaggiatori adulti, la spocchia di chi teme di non essere servito bene ancora prima di aver ficcato le zampe sotto un tavolo.
E insomma, sei tu, sei pronto a battezzare te stesso e la città come se tutto fosse nato oggi, e a goderti – in quel cicaleccio masticatorio che sarà fra poco rue des Trois Rois – lo spettacolo di ciò che gli umani fanno con più disinvoltura. Mangiare. Soprattutto se davvero affamati, si dispongono all’impresa con una freschezza, una vitalità, un’assenza di pregiudiziali che sorprende, tanto più se si considera che anche un ventenne, arrivato a quell’altezza della sua biografia, ha già consumato qualcosa come, a occhio, ventiduemila pasti, eccettuando quelli frazionati e ossessivi della primissima infanzia. Un vero miracolo, non trovi? E se è vero, come credo sia vero, che viaggiare mette fame, meglio così, fai conto che stai assaggiando la città, fai conto che stai assaggiando Marsiglia, in senso metaforico, se così si dice, e letterale allo stesso tempo – coincidenza fra astratto e concreto che di rado, o forse mai, capita in altre occasioni. Attendi ancora qualche istante, indugia. Poi ti dico da dove cominciare.
Le chiavi di una città
Le cose essenziali, in un arrivo, quali sono? Sfogliare una guida? Ruvida e non sempre bella – dice, di Marsiglia, questa guida. Non è certo Cannes o Saint-Tropez. Dice che vanta millecinquecento anni di storia. Dice che a lungo ha avuto una pessima reputazione: criminalità, degrado. Dice che spesso è stata denigrata ingiustamente. Dice che il cuore antico della città è il quartiere Le Panier. Dice che nel vecchio porto le navi gettano l’ancora da oltre ventisei secoli. Guardo la mappa, non riesco mai facilmente a capire, a orientarmi. Credo sia proprio qualcosa che mi manca, come una vite nei marchingegni della testa, un rocchetto senza il suo filo. Così guardo Marsiglia sporta sul mare e mi faccio le canoniche domande: sui punti cardinali della geografia e della conoscenza in genere. Quand’è che uno può dire di conoscere qualcosa? Quand’è che uno può dire di conoscere davvero una città? Non basta esserci nati, non basta nemmeno viverci. Forse una città non la conosciamo mai, mai per intero – c’è sempre troppa vita altrove, materia umana o comunque viva che ci sfugge. Posso dire di conoscere il vicolo, la finestra su cui la pioggia ha lasciato i suoi ghirigori di calcare, posso dire di conoscere non il mistral in assoluto ma il modo preciso in cui si incanala sotto il portone dell’appartamento di cui sono ospite e fa volare le cartacce come schegge leggere e un po’ mette in agitazione. Una città è soprattutto il resto delle cose escluso me, gli infiniti punti in cui non sono. Lo sbuffo di un autobus, il rumore di una trivella, il rumore della risacca costante, disperso, il tuffo di qualcuno, un’attesa, i ragazzini che mangiano gaufre al cioccolato con una splendida voracità, i vecchi che si trascinano, e una sottovita che resta notturna anche di giorno, uomini e topi, nei tombini, nei cessi delle stazioni, in qualunque luogo che coincida con un segreto, secretum, appunto, appartato, separato, staccato da. Avere un’idea completa di una città è come avere un’idea completa del mondo, è presunzione e illusione. E tuttavia, c’è un momento – non è facile isolarlo – in cui di una città dici mia, la mia città, e lì dev’essersi depositata una opportuna, sufficiente somma di ricordi sulle strade, sulle piazze, sulle rotonde, i balconi, i parchi, perché quel possessivo indichi un’appartenenza.
Esperimento Marsiglia, EDT 2019